Preavviso: questo è un tentativo, peraltro sicuramente fallimentare, di rendere più accessibile il pensiero di Kierkegaard che ho postato ieri. Non essendo io né filosofo né, tantomeno, persona di fede paragonabile con quella del nostro Soren, sicuramente banalizzerò e sarò fumoso.
Si parla del rapporto tra etica e fede. Rapporto problematico allora, agli inizi dell''800, anche se Kierkegaard ha, a mio avviso, più in mente le sue polemiche con gli eredi di Hegel che altro (per dire, più che la sua rottura con la morosa come vorrebbe l'introduzione della mia edizione); ma che, certamente, non è meno difficoltoso oggi, quando si tende a confondere insegamento morale con religione, o valori etici con la fede - e prosperano gli Atei Devoti alla Ferrara.
Il soggetto dell'agire morale è l'uomo nella sua individualità e libertà, il Singolo. Questa libertà, questo infinito aprirsi alle possibilità, diventa agire morale quando è regolata dall'etica; quando gli interessi personali vengono subordinati ad un Bene più grande (per far vedere che ho letto Harry Potter, alla fin fine); e questa etica, sulla scia dell'insegamento di Hegel, è ricomposizione e sintesi degli interessi contrapposti che animano le persone e la società - sappiamo bene che di Hegel è il concetto di Stato Etico, che ricompone le pulsioni contrastanti della Società; ecco, qualcosa del genere. È quasi un clichet culturale dire che proprio in virtù di queste teorie si sono sviluppate le concezioni autoritarie e dittatoriali del '900. Gentile, ideologo del fascismo, era filosofo idealista hegeliano, e lo stesso Marx aveva studiato, probabilmente senza capirci molto, Hegel - tanto che può essere considerato, a buona ragione, l'ultimo degli hegelisti di sinistra (nel cui novero c'è anche il Feuerbach di "Dio come proiezione umana").
Parlando di questa etica che è superiore alle istanze dei singoli individui, Kierkegaard fa riferimento alla tragedia greca ed al caso, ad esempio, di Ifigenia sacrificata dal padre nell'interesse dello Stato (vincere la guerra di Troia). E lo fa in contrapposizione al sacrificio di Abramo, tema principale di Timore e Tremore.
Il momento dell'Etica e dei suoi valori, per quanto importanti nell'agire di una persona, non è il momento più alto, il più importante, quello in cui c'è più verità ed in qui si decide il destino del Singolo. La vera realizzazione della Persona Umana (prendendo in prestito il concetto, più tipico del pensiero cattolico che di quello luterano, di cui il Nostro è espressione per quanto polemica) non è nel suo subordinarsi all'interesse generale o nel fare la cosa giusta, e nemmeno la cosa buona, per quanto questo sia già un passo avanti ed oltre la Vita Estetica dell'egoismo totale. Non è nell'annullare il proprio Bene per il Bene Più Grande che si trova consolazione e pace.
Perché Dio è al di là anche di questo bene. O, se preferiamo, il Bene di Dio è talmente superiore, come dista Oriente da Occidente, che il migliore dei nostri beni concepibili è l'ombra di niente. La scheggia di infinito posta nell'animo di ogni uomo non si dà pace neanche nel più ordinato e nel migliore dei mondi possibili, ché sono finiti. Ed è nella Fede che il cuore trova pace. La fede ci dice che non siamo un ingranaggio nella più o meno perfetta macchina del mondo, che non è in virtù del fatto che scegliamo la cosa giusta che siamo salvati e, ancora, che non è annullando noi stessi che facciamo la cosa giusta. Perché, contrariamente a quanto sembra ad occhi umani (ed ai miei per primi) quello che vediamo nei nostri simili, il quotidiano dibattersi nelle grinfie della limitatezza, non è l'uomo; o, almeno, non è l'uomo come doveva essere, che è lo stesso che dire l'uomo come è veramente. La fede ci dice che il nostro posto è l'Assoluto. Che la nostra natura è quella. Che noi siamo Sua immagine. Che è nella relazione con l'Assoluto che noi uomini, ma noi Singoli uomini, non il genere umano in generale, troviamo il nostro posto. In questa relazione con Dio la nostra realtà viene trasfigurata, la nostra umanità trova il suo posto.
Ed è un paradosso, lo dicevano già San Paolo prima e Tertulliano poi, ed è IL paradosso che, al di là della ragione che fa di tante cose una, che istituisce una scala di valori in cui il superiore precede e mette tra parentesi l'inferiore, sia nell'irriducibile Singolarità personale la nostra collocazione. Non siamo più subordinati all'interesse generale. L'agire morale non è né la gabbia né le briglie della nostra Libertà. È il sentiero che ci porta al di sopra. La vita etica ci può (perché non tutti accettano la Fede), appunto, sopraordinare all'interesse generale.
E di questo sta parlando Soren quando parla del sacrificio di Abramo. Perché uccidere il proprio figlio non è agire etico. Non si tratta nemmeno di ucciderlo perché c'è qualcosa di più importante (Isacco non è Ifigenia). Si tratta di ucciderlo perché l'ha detto Dio, e Dio non toglie quello che ha promesso, non toglie nemmeno il figlio promesso ed atteso da anni, non lo toglie nemmeno se sembra che sia proprio quello che ha ordinato. E Abramo si è completamente abbandonato in questo abbraccio con il suo Dio. Ha alzato la mano su suo figlio; che gli è stato restituito. Ed Abramo si è salvato, e con lui si è salvato Israele, e con Israele noi tutti.
1 commento:
Negli ultimi due intenti ci sei riuscito bene. Forse qualcuno può non avere la mia stessa opinione ma non credo che Soren sia mai stato felice o soddisfatto in vita sua.
Però il più miserabile è l'esteta a quanto pare, sarebbe bello fare un parallelo tra la vita di Soren e quella di Wilde...
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