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venerdì 25 settembre 2009

Conseguenze

Fatto
A mia sorella piace cucinare

Ne consegue che organizza una cena con i suoi amici
Ne consegue che una sera di settimana scorsa fanno tardi giù in taverna
Ne consegue che, quando hanno finito, c'è una sua amica da accompagnare a casa
Ne consegue che deve tirar fuori l'auto in retromarcia
Ne consegue (sapendo guidare come io so cucinare) che demolisce specchietto (e non solo) dapprima contro il cancello, poi contro il muro in fondo alla discesa
Ne consegue che si deve procurare uno specchietto di ricambio
Ne consegue che lo si procura da uno sfasciacarrozze
Ne consegue che bisogna chiamare qualcuno per montarlo, e chiamo un mio amico
Ne consegue che viene da me ieri, e dapprima sostituiamo il pezzo, poi tentiamo altre varie riparazioncine.
Ne consegue che scende anche mio fratello, per qualche motivo eccessivamente di buon umore
Ne consegue che lancia idee strampalate, che noi perlopiù bocciamo
Ne consegue che s'ingegna a trovare qualcosa a cui difficilmente direi di no, e trova la montagna
Ne consegue che inventa di andare al Curò, l'indomani, e che riesce a convincere un numero sufficiente di camminatori
Ne consegue che, indipendentemente dalle condizioni meteo, stamattina alle sette si parte con l'AX rattoppata e ripulita, destinazione Valbondione
Ne consegue che ci mettiamo sul sentiero alle otto e dieci, incuranti di brume e nebbie e del fatto che non si vede la testata della valle
Ne consegue che, all'altezza del bivio con la Direttissima, inizia a piovere a catinelle
Ne consegue che ci facciamo la Direttissima sotto l'acqua, ed arriviamo al rifugio (per fortuna aperto, con questa ormai relativamente nuova gestione) peggio di pulcini bagnati.
Ne consegue che passiamo mezza mattinata a scaldarci al fuoco ed a giocare alla Torre di Hanoi fino all'ora di pranzo, che consumiamo in parte al sacco in parte caldo.
Ne consegue, ovviamente, che a parte la prima mezz'ora scendiamo che non piove e quasi quasi sembrerebbe poter uscire il sole.
Ne consegue che stasera andrei anche a letto presto, ma tanto non posso

La foto non c'entra niente con la camminata (forse come metafora dell'acqua a catinelle), serve per dare una rappresentazione grafica del concetto di "cascata di eventi"

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mercoledì 2 settembre 2009

Quando ci si perde

Come ormai si è ampiamente dimostrato, non è che io riesca a stare in casa, fermo e calmo, per più di tre giorni di fila. E così, avvicinandosi pericolosamente il limite, ier l'altro - che sarebbe lunedì 31 - sono partito per un'escursioncina che doveva essere facile facile, salire al rifugio Albani (1940 m) dalle baite Möoschel che sono sopra Valzurio, in comune d'Oltressenda Alta (1265 m). Poiché il sito del CAI di Bergamo, che ha una bella mappatura elettronica dei sentieri, mi dava tre ore di tempo, avevo fatto conto di salire in un paio d'ore, star su tranquillo, scendere di volata e - magari - risalire per un pezzo anche all'Olmo, che avrei fatto due rifugi in un giorno e non è cosa da buttare via.

Invece, sotto molti punti di vista la gioranta è stata sfortunata; in primo luogo perché la strada fino alle baite è percorribile solo da fuoristrada, previo pagamento di tariffa, e con la mia macchinetta mi sono dovuto sobbarcare tre quarti d'ora buoni di cammino in più, partendo da Spinelli che è l'ultimo luogo in cui arriva l'asfalto. La cosa più grave è, stata, nondimeno, imboccare il sentiero sbagliato (CAI BG 314 invece di 311) e salire verso il passo degli Omini; e - essendo già salito di duecento metri almeno prima di rendermene conto, perché si era nel bosco - decidere di non tornare indietro, ma di attraversare la valle fino a raggiungere il sentiero vero rimanendo in quota, tagliando per pascoli e sperando di trovare le tracce di sentiero che la cartina Kompass Foppolo-Valle Seriana indica. Dal file di Google Earth, che siete invitati a scaricare, con il percorso si dovrebbe poter evincere il mio percorso, in cui ho sì trovato vecchie tracce di sentiero, ma così labili e sconnesse da non riuscire a seguirle per più di cinquanta metri. Poi, va da sé, finalmente sono riuscito a ritrovarmi sul sentiero vero ed in breve a raggiungere l'Albani, rinunciando nel ritorno all'Olmo perché si era perso parecchio tempo, tra il tratto in più e la mia gita fuoristrada.

Nel bel mezzo della mia traversata nel deserto mi sono ritrovato in una conca sotto la parete del Ferrante, nella quale troneggiava un vecchissimo ed abbandonato capanno da pastori, che ha però la peculiarità di aver scritto, a caratteri cubitali, in minio, sulla lamiera arrugginita, "1961" e "S.A.R" (non saprei dire con certezza se i punti ci sono o meno, io ce li ho visti), e poi in piccolo graffiati mille nomi di persone passate di lì, dai tipici cognomi Oltressendesi, tipo Baronchelli. Il punto è, a mio avviso - bisogna sì considerare che avevo sbagliato sentiero, ma poi ho sempre saputo con discreta precisione dove fossi - questo; ecco, a tal proposito invoco i miei lettori, ma più facilmente i visitatori occasionali, che sappiano darmi informazioni sul capanno, e su eventuali ascensioni al Ferrante da quella posizione (vedevo abbastanza distintamente un ghiaione che mi avrebbe portato, credo, a scollinare dall'altro versante, un duecento metri sopra il punto in cui mi trovavo).

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lunedì 31 agosto 2009

Di qui passò Francesco - Le foto

Chiedo scusa ai lettori, ma ormai questo Facebook fa talmente tutto in uno che proprio non mi è venuto in mente di segnalare altre foto oltre quelle che ho messo tappa per tappa.

Non che siano tutte quelle scattate da mio fratello (che sono troppe, e perlopiù inutili), ma qualcosa in più si trova in questo album pubblico di Facebook - appunto.

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sabato 29 agosto 2009

Di qui passò Francesco - Mappe e bilancio


Inizio subito deludendo i lettori attenti alle pieghe della mia psiche; con bilancio non intendo introspezione, cosa mi aspettavo e cosa mi ha lasciato quest'esperienza, ma piuttosto analisi complessiva del cammino dal punto di vista escursionistico

Per prima cosa, segnalo il must delle escursioni che riporto su questo blog, e cioè il file .kmz che riporta i tracciati delle tappe su Google Earth (o meglio, riporta i tracciati così come li ho percorsi io, e quindi tiene traccia di scortaröle, deviazioni ed errori), e - novità di questa edizione - include i link diretti ai post del blog che le descrivono.

Per quanto riguarda il giudizio sul cammino in generale, bisogna per prima cosa dar conto del fatto che, in giro per la rete, esistono opinioni virulente, che lo stroncano indicandone tutti i limiti, anche in maniera ingenerosa; per quanto non possa non concordare con lo scrivente, e pure a mio avviso il percorso è tutto fuorché per famiglie. Certo, tutti noi siamo arrivati, per quanto acciaccati, fino in fondo, ed io - ad avere un'altra settimana - non mi sarei tirato indietro dal proseguire fino a Poggio Bustone. Ciò non toglie che, se i pellegrinaggi organizzati pianificano di metterci più di dieci giorni, per fare le prime sette tappe, qualcosa vorrà pur dire. Poi ci sono le storie mie, per cui ho apprezzato molto le prime due tappe, che in un modo o nell'altro somigliavano a tappe di montagna, e molto meno quelle che si snodavano sui crinali assolati delle colline, o - peggio ancora - tagliavano pianure su lunghi inesorabili rettifili.

Dal punto di vista tecnico, gli scarponi d'alta montagna che ho portato, e che mi hanno con ogni probabilità incrinato un osso del piede destro, erano del tutto eccessivi; anche se nelle prime due tappe - appunto, si diceva - le scarpe da ginnastica erano un po' leggerine e avrebbero mancato di grip, da Sansepolcro in poi erano più che adatte; solo, c'era il rischio che si infradiciassero, beccando una giornata di pioggia. Poi, con tutto la deferenza che si può portare a chi ha individuato il percorso e scritto la guida, troverei assai azzardato procedere solo con quella o - peggio - affidandosi ai tau gialli che di quando in quando appaiono; come segnavia, ci sono dei cartelli metallici molto accurati soprattutto dal punto di vista dei tempi di percorrenza (a chi mai potrà interessare, però, sapere che gli mancano 6.22 ore a Gubbio?), che però da Gubbio in poi non sono più riportati, ma la segnaletica complessivamente è caotica, e caotizzata dal fatto che si contendono l'attenzione "Di qui passò Francesco" (frecce e tau gialli, cartelli metallici del CAI con tau in evidenza), "Cammino di Assisi" (frecce verdi), "Cammino di Francesco - Via Francigena" (cartelli metallici gialloblu) e, naturalmente, il CAI - che come spesso mi è capitato di vedere in Appennino, segnavia (voce del verbo segnaviare) con massima accuratezza le strade asfaltate, ed è carente nei tratti di sentiero. A mio avviso, ma un po' lo dico anche perché è il mio mestiere, durante le escursioni, è indispensabile avere con sé mappe che diano un minimo di possibilità di orientarsi e trovare punti di riferimento anche esterni al cammino. Purtroppo, le carte Kompass iniziano ad essere disponibili più o meno dalla Madonna di Montecchi in poi; prima, abbiamo trovato in loco una mappa della Comunità Montana Alto Tevere Toscano o come si chiama, ma comunque da Città di Castello a S. Benedetto Vecchio si va quasi completamente alla cieca, e questo - a mio avviso - è un problema specie per chi affronta il cammino da solo o quasi (anche se pure noi abbiamo avuto il nostro bel da fare, a capire dove si fossero persi i nostri colleghi, durante la terza tappa).

Per quanto riguarda il percorso, devo dire che a tratti lo trovo insensato. O, quantomeno, bizzarro - se l'obiettivo è andare ad Assisi, soprattutto. Se divaghiamo, e decidiamo che l'obiettivo possa essere fare un duro trekking per monti e colli, tra Toscana ed Umbria, allora diverse scelte vengono messe sotto una luce diversa; ad ogni modo, rimangono e rimarranno sempre quelle tre-quattro deviazioni che secondo me vanno seriamente considerate, in un'eventuale riedizione della guida. Alcune siamo riuscite a prenderle, durante questa settimana, altre sono rimaste solo sulla carta, perché sconsigliato di lasciare la via vecchia per la nuova. Mi viene quasi voglia di rifarlo, per dimostrare che avrei avuto ragione io...

Nella foto, il "logo" del pellegrinaggio: zaino e Basilica

Le puntate del Diario del Cammino:

  1. Giorno 0
  2. Compagni di cammino
  3. Prima tappa (La Verna - Cerbaiolo)
  4. Seconda tappa (Cerbaiolo - Sansepolcro)
  5. Terza tappa (Sansepolcro - Città di Castello)
  6. Quarta tappa (Città di Castello - Pietralunga)
  7. Quinta tappa (Pietralunga - Gubbio)
  8. Sesta tappa (Gubbio - Biscina)
  9. Settima tappa (Biscina - Assisi)

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19 agosto - Settimo (e ultimo) giorno

Sulla carta questa tappa è lunghetta, ma siamo rinfrancati dal fatto che sia l'ultima. Passando accanto al castello di Biscina si scende dapprima per sterrato, poi per alcuni ripidi tratti di sentiero - che sembrano messi apposta per ostacolare quanti, come mio cugino Davide, procedono coi sandali per via delle vesciche (sandali che, dopo aver provato praticamente quelli di tutti, in data odierna sono i miei - ma se avessimo saputo prima che gli sarebbe venuto così facile camminarci, glieli prestavo già da un paio di giorni) - alternati (perché mi sembra giusto) con altrettanto ripidi strappi in salita, fino alla strada - direi di servizio, visto che è piena di segnali di divieto d'accesso e la carta Kompass ritiene di metterla sotto il teorico livello di massimo invaso del, per il lago di Valfabbrica, che è poi una specie di gigantesco stagno puzzolente causato dallo sbarramento del Chiascio da parte di una diga ciclopica, che chissà se è mai servita a qualcosa di serio. Dopo averla seguita per qualche chilometro fino alla diga, ignorando alcuni segnavia che, stando alle mappe, ci avrebbero offerto certo la visita di una pieve e di un grazioso agglomerato di case, ma regalato un su e giù inutile, ci mettiamo nella piana del Chiascio, dalla località Barcaccia dove un tempo partivano i traghetti per l'attraversamento del fiume (che mi chiedo come sia mai stato possibile navigare senza grattare il fondo), che seguiamo su strada bianca dapprima in pieno sole, poi ombreggiata fino alle porte di Valfabbrica, che raggiungiamo in salita, e sono già due ore e tre quarti dalla partenza.

Dopo esserci procacciati il pranzo, proseguiamo, infilandoci fortunatamente presto, dopo pochi ma intensi minuti di rebatù sull'asfalto, in un fossato/valletta detto Fosso della lupa, in cui si sente l'insolito - per questo pellegrinaggio, direi che è la prima e l'unica volta che capita - gorgogliare di un ruscello non in secca che ci accompagna per quasi tutta la - peraltro assai ripida, a tratti - risalita, che si conclude sul crinale della collina. Altri duecento metri di strada bianca e siamo al GPM della tappa odierna. Su strada asfaltata, in lievissima discesa, giungiamo a Casa Coppe, dove attendiamo gli altri e mangiamo, ospitati per quanto concerne acqua, vino e grappa - prodotta a Pedrengo, ironia della sorte - dai gentilissimi agricoltori. Si scende poi, tutti insieme, dapprima su strada e poi per sterrato fino a poco prima di un poggio (Assisi, ormai, è visibile all'orizzonte dal GPM, ma il Subasio si intravede anche da Biscina) che, tra qualche imprecazione di troppo, risaliamo per ridiscendere ai piedi della collina su cui sorge Assisi. Con qualche incertezza, in silenzio, tentiamo dapprima di raggiungere la basilica superiore risalendo nel bosco, ma il segnavia del CAI si perde nella fratta, e noi con lui. Tornando sulla strada cerchiamo qualsiasi risalita purché non quella segnata sulla guida, che ci porterebbe su fino al cimitero; e troviamo una strada pedonale, chiaramente in ripidissima salita ed in pieno sole; sbuchiamo alla Basilica Inferiore, saliamo la rampa di scale e ci ritroviamo (con Davide, che sotto l'effetto dell'Aulin ci ha preceduto) nel piazzale della Superiore, per concludere il pellegrinaggio.

Nella foto, noi buttati sul piazzale della Basilica Superiore

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18 agosto - Sesto giorno

Dopo una lunga colazione, trascinata tra panifici, pasticcerie e bar di Gubbio, partiamo per quella che dovrebbe essere una tappa di decompressione, ma che si rivelerà delle peggiori, ancorché breve; forse anche per l'ondata di afa che sembra aver investito l'Umbria, considerato che - a sera - scopriamo essere morta una persona di caldo, proprio a Gubbio. Si scende da Gubbio e si esce dalla città, dopo aver gettato un rapido sguardo alla chiesa della conversione del famoso Lupo, prendendo poi un lunghissimo pianeggiante asfaltato rettifilo che taglia la pianura come un coltello, quasi esattamente in direzione sud, fino a Ponte d'Assi, e poi si porta - senza quello spreco di asfalto che sono i tornanti, ma direttamente per la linea di massima pendenza - fino a quota 560, con assurde rampe. Di lì si prosegue il classico saliscendi da crinale, ben presto lasciando l'asfalto per imboccare una delle solite strade bianche, fino a casa Pratale, che sovrasta un bel castello riattato e, dall'altro lato del vallone, un'abbazia che, non fosse che è fuori strada, magari saremmo anche passati a visitare. Poco dopo casa Pratale, dopo un paio di tornanti in discesa che nascondono una provvidenziale fonte, si giunge a Santa Maria delle Ripe, piccola cappella-tabernacolo con una specie di libro di vetta, dove ci si ferma per pranzare. Sembra che il cammino sia più breve e facile del solito, e più breve lo è davvero, stando alle mappe; ma per quanto riguarda la semplicità avrei due o tre cosette da dire, considerato che dopo pranzo saliamo leggermente fino all'eremo di San Pietro in Vigneto, e poi scendiamo sempre su strada bianca per qualche tratto, prima di immetterci nel delirio. Scendiamo ripidissimi in una specie di fosso di scolo, fino a raggiungere il fondo di una valletta, sovrastati dal viadotto di un acquedotto (o gasdotto, o altro dotto); risaliamo poi dall'altro versante, per bosco e boscaglia, fino ad una vecchia chiesa sovrastata dal castello di Biscina, nostra meta, che sembra a portata di mano appena una sessantina di metri più in alto. Sembra, perché scendiamo nuovamente l'ennesima stretta ed ombrosa valletta, guadiamo un torrentello e risaliamo l'altro versante, di terra nuda sotto un sole battente per oltre un centinaio di metri. Dove il sentiero, ormai tornato viottolo, sbuca sulla strada - asfaltata - che percorre il crinale c'è una presa d'acqua (accanto ad una sorta di paradiso del barbecue) che al tempo stesso mi salva la vita e me l'accorcia parecchio, in quanto - abbondantemente dissetato, e praticamente fradicio di acqua e sudore - sbucando sul crinale battuto dal vento poco ci manca che mi venga una congestione immediata (nonostante i minimo trentacinque gradi, mi tentava la giacca a vento...). Sono poche centinaia di metri, praticamente in piano, prima che si entri nella - spettacolare - tenuta Biscina dove, insieme alla seconda piscina che salto della settimana, ci vengono assegnati due appartamenti in una villetta, vicino ad altri pellegrini - tra cui una berlinese con bambino al seguito che compie il nostro stesso cammino ma con mezzi di fortuna. A ben vedere, domani sera già saremo ad Assisi ed il cammino sarà finito. A questo punto, siamo quasi tutti dell'idea che era ora.

Nella foto, la pausa pranzo presso S. Maria delle Ripe

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giovedì 27 agosto 2009

17 agosto - Quinto giorno

Dapprima si scende fino al fondo della valle, tra discussioni (se seguire il segnavia o il buon senso) che lo scoprire che le diverse vie si riuniscono poco prima della risalita in Pietralunga sopisce - con il buonumore che sempre caratterizza le prime ore di marcia. Dopo la salita e la brevissima visita nel bel borgo di Pietralunga - visita che serve più che altro a fare la spesa per la giornata - scendiamo in una valle isolata, sul nastro d'asfalto (valle ignota alla nostra guida, che ci faceva fare tutto un altro giro, ma noi seguiamo il segnavia che anche nei giorni precedenti si sono dimostrati più saggi, e ci consoliamo pensando che, nel paio d'anni intercorso tra l'edizione in nostro possesso ed oggi, appunto siano stati razionalizzati alcuni tratti di percorso, già di per sé non brillantemente saggio, visto che predilige lunghi giri altalenanti ai percorsi più diretti) fino ad incrociare la carrareccia che sale al nucleo abitato di San Benedetto Vecchio (dove torniamo ad essere d'accordo con la guida) e brevemente scende al vecchio - chiuso ma apparentemente nuovo di pacca - monastero. Si scende ancora, lungo la strada asfaltata che condurrebbe nella piana egubina, fino all'incrocio tra la strada bianca, indicata sia dalla guida che dai segnavia e che con lungo giro ed insensata salita ci porta a scendere nella valle al di là dei poggi che ci sbarrano la strada, ed il sentiero - che si vede benissimo tagliare come una lama e perpendicolare alla linea di massima pendenza - che ci permetterebbe di scavalcarli, seppure passando per la cima di uno di essi rimanendo comunque a quota complessiva più bassa. La mia stima è che, scavalcando appunto questo Monte Spesce, alto settecento e rotti metri, si risparmierebbe almeno un'ora, ma forse anche un'ora e mezza di cammino, per giunta evitando di superare gli ottocento metri del Poggio del Prato. Il fattore, ma più che altro le sue vacche e - soprattutto - i suoi tori al pascolo ci fanno optare per la strada più lunga, mentre un gruppetto di noi, i più disastrati, decidono di scendere per la strada asfaltata che - si calcola - comunque è facilmente percorribile e fa risparmiare parecchio tempo. Dopo, infatti, che la tappa di ieri ed il primo paio d'ore della tappa odierna si erano svolte senza la "copertura" di una carta diversa da quella, abbastanza limitata, riportata sulla guida, siamo finalmente entrati nella zona coperta dalla Kompass Gubbio-Fabriano, e quindi sappiamo valutare con precisione eventuali percorsi alternativi.

Ci aspettava una lunga risalita su una delle consuete abbacinanti strade bianche, tra vecchi cascinali in avanzato stato d'abbandono, fino ad una bella pineta sommitale ed una ripidissima - ai limiti dello spaccagambe discesa che ci riporta su una strada asfaltata - dall'altro lato del famoso Monte Spesce. Lunga e riarsa traversata, tra saliscendi e senza un goccio d'acqua - da Pietralunga, neanche una stilla - fino alla Madonna dei Montecchi, dove invece di acqua ce n'è parecchia, ed anche ottima - almeno per gli standard dell'acqua umbra. Eccetto il don, che dapprima per un malinteso è corso avanti (pensando aver io tagliato per sentieri che in effetti avevo indicato, ma che mr. Gap aveva sconsigliato) e poi ha deciso di proseguire fino a raggiungere quanti scendevano per strada, attendo gli altri in modo che ci si fermi insieme a pranzare. Sollecitati da un violento temporale che si gonfiava alle nostre spalle ripartiamo fino ad arrivare alla frazione di Loreto, appena in tempo prima che si scateni l'Apocalisse, da cui ci ripariamo rifugiandoci - grazie al sacrista - nella bella chiesa, dove ci fermiamo per un'oretta in attesa che passino grandine, acqua e fulmini (visto che pochi si fidano della possibilità di costruire una gabbia di Faraday unendo i bastoncini telescopici).

Non ci pentiamo di aver perso un'ora perché il temporale ha - fortunatamente - rinfrescato l'aria e l'ambiente, e quindi scendiamo rilassati (io ho rimesso gli scarponi, temendo più l'umidità del dolore, e del resto i sandali favoriscono le vesciche, che infatti dopo quasi tre giorni di tali calzature si sono formate) dapprima a Monteleto, indi nel bel mezzo della piana di Gubbio, che ancora non si vede nascosta da un cementificio. Attraversiamo questa piana noiosa per qualche chilometro, prima che la città ci si stagli dinanzi, e con la città la prima gelateria del Pellegrinaggio, e con la prima gelateria le strette stradine per cui s'ha da inerpicarsi fino a giungere, abbastanza stremati, al convento delle Domenicane dove siamo ospitati. In effetti, ne valeva la pena, del tramonto a Gubbio. E della serata, giacché si cena in un buon ristorante e si passeggia per le vie, fin troppo animate per via della Missione Giovani dei Frati Minori di Sicilia, che spero per loro che con quel trambusto convertano qualcuno, ma ci credo molto molto poco. A me nauseavano, con trenini e coreografie da inno del CRE sopra un impossibile pout-pourrì di canti sacri e profani. A meno che - certo - dietro i canti profani si nascondesse qualche segreto messaggio subliminale interpretabile in senso cristologico. Tipo oh Susanna non piangere per me, piangi piuttosto sui peccati dei tuoi figli, durante la via Crucis.

Nella foto, alcuni di noi, al tramonto, sul parapetto della piazza di Gubbio, quella dove dovrebbe esserci la stazione dei Carabinieri (stando a don Matteo) e invece c'è un noiosissimo museo.

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16 agoto - Quarto giorno

Partiamo al mattino, dopo la Messa ed una colazione più che degna, dalla Villa Sacro Cuore di Città di Castello; il piede non è migliorato, nella notte, e quindi ho deciso di affrontare tutta la camminata del giorno con i sandali - d'altra parte, stando alla guida ed al buon senso non dovrebbero esserci tratti di sentiero, ma il nostro cammino si consuma tutta tra strade sterrate o asfaltate. Per viottoli e calmi saliscendi, attraversando un "poligono" d'addestramento per cani da caccia - di animali al passo, direi - si giunge fino alla strada provinciale Città di Castello-Pietralunga, che inesorabile si infila dritta come un ago tra i colli, e che seguiamo per alcuni chilometri. Ce ne stacchiamo per salire - ancora, seguendo i segnavia ma contro il parere della guida - sulla destra verso il crinale della collina, circondati da vigneti elettrificati e magra riarsa vegetazione. Giunti al crinale ritroviamo l'asfalto, che seguiamo per innumerevoli saliscendi sempre sotto il pieno sole, non bastando i rari alberi a garantire l'ombra. Qualcuno deve aver utilizzato questo tratto di strada per una gara ciclistica, perché dipinti sull'asfalto ci sono ancora le scritte che misurano il nostro percorso, di cinquecento metri in cinquecento metri, fino al gran premio della montagna che corrisponde con il termine dell'asfalto e l'inizio dello sterrato, che dal punto di vista climatico è ancor peggio perché tutto quel bianco riflette ed abbacina, in modo che il caldo non ci picchi solo in testa ma salga anche dal basso; sembra di stare in un forno, ma in uno di quelli studiati perché il calore si diffonda uniformemente. Finalmente, stando alla guida dopo cinque chilometri di questa tortura, arriviamo in lieve discesa alla Pieve de'Saddi (una chiesina con annesso cimitero, abbandonati e con sorgente disseccata ci avevano fatto un po' temere) dove ci sono acqua ed ombra a volontà, per un parco pranzo, un po' di riposo ed una partita a carte.

Il proseguo è dapprima in discesa, fino a raggiungere la strada asfaltata a fondo valle, e poi in salita, piuttosto dolce, fino allo spartiacque con Pietralunga, che però ci rimane nascosta sulla destra. Ultimo delirante sforzo in salita per raggiungere l'albergo, che si trova in località Candeleto, che - guardando le strutture, direi negli anni Settanta - penso volesse diventare una sorta di comprensorio di villeggiatura affacciato su Pietralunga - ed agli anni Settanta sembra pure che risalgano gli ospiti del nostro albergo -, con campi da tennis, piscina, campeggio ed appunto il nostro albergo dove chi s'è ricordato di mettere nello zaino il costume da bagno si gode una nuotata nella piscina privata. Del resto, la tappa è stata sufficientemente rapida per arrivare in tempo utile, verso le quattro del pomeriggio. In effetti, pare che - a parte gli ideologicamente contrari alla piscina - io sia l'unico ad essersi dimenticato il costume, ma mi consolo con il whisky&soda più economico della storia.

Nella foto, a bordo piscina

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mercoledì 26 agosto 2009

15 agosto - Terzo giorno

Si scende dal Convento dei Cappuccini, un po' dolorosamente per quel fastidioso dolore al piede insorto il giorno prima, - seconda lettura, l'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte - fino alla città, e si attraversa tutta la pianura per vie che tagliano i campi, in alcuni punti a ridosso del muro di cinta della Buitoni. Ad un certo momento, col don, si devia per sentieri lasciando il resto della comitiva a rosolare sull'asfalto, mentre noi lambiano campi di tabacco, percorriamo tratti di quello che ha tutta l'aria di essere un semplice fosso - con tanto di ortiche - ed arriviamo sulle pendici del colle su cui sorge Citerna, nostra tappa intermedia abbastanza in anticipo per evitare la salita dell'inutile poggio che la guida indica e che gli altri, ligi al dovere ed ai segnavia, affrontano.

Il problema della giornata, che sarà poi - in realtà - il problema più grosso dell'intero pellegrinaggio, è che il gruppo di coda, formato da quattro di noi, non sopravvive allo scavalco di questo poggio, che la guida segnala per l'orribile campanile moderno, che certo è moderno ma ho visto di peggio. Dopo averli aspettati, insieme agli altri che a questo punto ci avevano raggiunto dove inizia la salita seria per Citerna, a lungo e telefonicamente contattati, e dopo aver dedotto, stanti le mappe, che tanto più fuori strada di così era impossibile, ed averli indirizzati per Monterchi via strada provinciale, li abbandoniamo un po' al loro destino e risaliamo a Citerna, bel borgo
medioevale - non so se uno dei borghi più belli d'Italia, come recitano i cartelli ad ogni angolo, ma senz'altro merita di farci un salto - presso cui facciamo una prima pausa, ma. Ma, sia per venire incontro a quelli che sono fuori strada, e che dovrebbero giungere non a Citerna, bensì a Monterchi, che per venire incontro al don che vuole vedere la Madonna del Parto, conservata presso il museo di Monterchi stessa, decidiamo che non è Citerna il luogo deputato al nostro pranzo, ma Monterchi, che tanto bisogna semplicemente scendere dalla collina, dal lato opposto rispetto a quello da cui siamo saliti. Io parto un po' prima, perché il piede protesta sempre di più, specie in discesa, e messo sulla cattiva strada da un'indigena imbocco un sentiero, o una traccia di, che attraversa in ripida discesa dapprima il deserto, poi il Getsemani, in cui m'oriento seguendo il letto di un torrente disseccato, fino ad arrivare sul Lago di Tiberiade, che con una certa difficoltà aggiro ritrovandomi poi in pochi minuti a Monterchi, non dove mi aspettavo di arrivare, ma di lusso - per come s'era messa. Devo abbandonare gli scarponi e ripiegare sui sandali. A Monterchi (che, ovviamente, non è in pianura, ma su una piccola collina che va brevemente percorsa fino in cima) pranziamo, sempre in vana attesa delle pecorelle smarrite che, stando a quanto ci riferiscono, sono riuscite a sbagliare ulteriormente ed a dirigersi dalla parte opposta rispetto a Monterchi, una volta trovata la strada "giusta". Ci immettiamo anche noi sull'apparentemente lunghissimo ed apparentemente infinito e non apparentemente, ma veramente torrido nastro d'asfalto che correrebbe dritto fino a Città di Castello, nostra meta, per lasciarlo dopo poche centinaia di metri risalendo un colle (scendendo da Citerna, avremmo comunque dovuto risalirlo, quindi siamo rientrati sul percorso standard) fino alla sommità - l'ultimo tratto è un bello strappo - dove troviamo un agriturismo dal quale quasi non ci lasciano più andar via, tanto sono ospitali ed intenzionati a rimpinzarci. Discendiamo al fondo dall'altro lato e scavalchiamo un altro colle, giungendo a Lerchi. Qui, anche data l'ora, ma soprattutto le nostre condizioni, abbandoniamo ogni velleità di risalire (peraltro inutilmente) all'Eremo del Buon Riposo (che - per come eravamo messi - più facilmente sarebbe divenuto l'Eremo dell'Eterno Riposo), ma seguendo la strada con scorciatoie varie proseguiamo nella piana fino a Città di Castello, che purtroppo va attraversata tutta, in direzione terme, e - non paghi - va lasciata per risalire su un ulteriore poggio, per giungere alla lontana (ma confortevole) Villa Sacro Cuore, dove alloggiamo. Il gruppo dei quattro dispersi, a cui s'è aggiunto Marco che ci avrebbe raggiunto in giornata, durante la tappa, arriva a destinazione - ripescato dai gestori della Villa - poco prima che noi ci si metta a cena. Anche per oggi, missione compiuta.

Nella foto, l'arrivo a Città di Castello, ignari che ci volesse ancora un'ora abbondante di cammino.

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14 agosto - Secondo giorno

Scendendo dall'eremo, in dieci minuti si raggiunge l'inizio della tappa. che ci porta a rialzarci senza troppa fretta tra boschi e pascoli - che, credo per via dei lupi o di chissa cos'altro, qui sono tutti recintati, ed è un continuo apri e chiudi di improvvisati cancelli di filo spinato - tagliando in costa il monte(?) sopra l'eremo stesso, portandosi in poco più di un'ora al Passo di Viamaggio, donde transita la civiltà, e scendendo il quale dalla parte giusta i cartelli ci assicurano si giunge a Rimini. Al bar-ristorante che si trova proprio sulla linea di spartiacque ci fermiamo per una sostanziosa colazione, visto che fino a questo momento siamo andati avanti solo a barrette. Tirato il fiato, partiamo in decisa salita fino alla vetta del Monte Vere, attraversando in modo rocambolesco (visto che ho qualche difficoltà a capirne il meccanismo d'apertura) diversi di quei cancelli di fiolo spinato ed infilando, sempre per bosco, anche tratti assai scivolosi. Terminato il su e giù, che ci regala impagabili scorci su...altri colli, ci si mette su una strada bianca che sarà la nostra lunghissima tortura fino al Pian delle Capanne e oltre, anche a dispetto della guida che ci indirizza per sentieri, mentre cartelli e segnavia ci fanno attraversare greggi di pecore - e qualcuno di noi si cimenta nell'antica occupazione della pastorizia per aprirsi la via - fino alla località (meglio direi: alla fattoria) di Germagnano, dove ci fermiamo per pranzo presso un abbeveratoio che sputa fuori acqua - e questo è un già di per sé un evento - per di più buona. Per scendere dei pochi metri che ci separano da Montagna - disgraziatamente sull'altro lato della valletta del torrente Afra, il percorso della guida ce ne faceva scavalcare le sorgenti - raggiungiamo per erto sentiero il fondo, guadiamo il torrente indirizzati da un misterioso personaggio che i più non ricordano di avere visto e risaliamo in paese, sbucando presso il cimitero, e senza idee della strada che possano aver preso i primi del gruppo, visto che alcuni altri ed io ci eravamo attardati a sistemare gli zaini dopo pranzo.

Con la speranza che i nostri colleghi abbiano preso la via giusta e non si siano lasciati tentare dalla strada asfaltata che comodamente scende a Sansepolcro, nostra meta, parto di gran carriera per la lunga traversata in direzione dell'Eremo di Montecasale, che alterna tratti boscosi e mediamente umidi a riarsi ed assolati passaggi in ambiente precalanchivo (se esiste la parola, e se non esiste si capisce cosa significa); sommato questo fatto al fatto che procedevamo sotto il sole delle due-tre del pomeriggio, si capisce con quanta gratitudine ci siamo attaccati al filo d'acqua pretiosa et utile et humile et casta che sgorgava dalla fontanella presso l'eremo; eremo da cui, causa un paio di errori di valutazione miei che ci hanno fatto perdere nella boscaglia, e passare la voglia di cercare il sentiero vero per scendere a fondovalle, abbiamo raggiunto Sansepolcro in qualche chilometro di strada asfaltata in discesa, che ha messo a dura prova il mio piede destro che ancora mi duole in modo sospetto, ed una volta entrati in paese, ingannati da indicazioni contraddittorie, abbiamo consumato le ultime energie in una sudata e disperata ricerca del Convento in cui, con altri pellegrini, abbiamo alloggiato.

Nella foto, una rara immagine in cui bevo - per la prima ed unica volta del pellegrinaggio - da una bottiglietta di integratori salini. In mano, cosa tutt'altra che rara, una carta dei sentieri.

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lunedì 24 agosto 2009

13 agosto - Primo giorno

Dopo essere arrivati alle 12.00 del giorno 12 al Convento Francescano ed il pomeriggio (ultimo pranzo civile, al ristorante) sulle balze del Monte Penna, messa e vespro solenne (ehi! è il Beato Giovanni da La Verna, c'è il cardinale di Firenze in persona), cena tra noi ed un accenno di stelle - se ne avessi vista qualcuna, sarei stato troppo impegnato a decidere se era davvero una stella per sfruttare il desiderio (la definizione, comunque, è "sassi che bruciano", per amor di poesia), e comunque l'avrei vista in comproprietà, e mi insegnano che le stelle valgono solo se esclusive. Le suore - che sono un po' pasticcione - hanno letti solo per sette, ma un po' la Provvidenza un po' noi che aiutiamo la Provvidenza ci sistemiamo, e più o meno dormiamo.

Il giorno seguente - che è poi quello del titolo, al termine del quale scrivo - partiamo, troppo tardi, per le otto ore segnate sulla guida), ma ben presto ci accorgiamo che - fischi - il tempo di percorrenza segnato è un po' troppo pessimistico. Nel frattempo abbiamo pregato le Lodi e fatta la meditazione del giorno (Perfetta Letizia), ma più che questa sono le prime che mi parlano, con l'inno che invita alla mitezza mentre io - nella prima giornata - ho abbondantemente dato sfogo a tutta l'intrattabilità-Casati, specie con le due o tre adolescenti a noi aggregate - ed ho come l'impressione che il fervorino sia rivolto a me. Per oggi provo a fingere di cambiare, anche se non è semplice.

Comunque, per l'ora di pranzo siamo saliti al punto più alto ed abbondantemente scesi, fino a Pieve S. Stefano, in tempo per giocare con un microgatto e prendere sulla testa un violentissimo temporale, fortunatamente alleggerito dalla disponibilità dei Pievesi che ci hanno prestato un androne. Siamo poi corsi (lungo la strada sterrata e non per il sentiero, visto che con la pioggia non si sa mai) fino all'Ostello Francescano - che l'operaio/extracomunitario/abusivo/serial killer (queste le ipotesi fatte sulla sua identità) ci ha invitato a lasciare e siamo saliti all'Eremo di Cerbaiolo; bellissimo fuori quanto cadente e malsano all'interno, ma l'eremita è ormai anziana e non penso possa correr dietro ad un complesso così grande. Siamo alloggiati in una sorta di Valbonaga abbandonata - io ho anche una singola con tanto di catafalco - ed abbiamo una splendida vista, per quel che vale, sul lago (di cui ho anche letto il nome, comunque è prima di Sansepolcro). Ed ora è quasi ora della Messa e vado a darmi una rinfrescata, e capire come ci regoliamo per cena e colazione, che ho due chili di formaggio sulle spalle.

***

La sera, dopo un magnifico tramonto (sto sprecando aggettivi d'estasi, si vede che è solo il primo giorno), e la cena - spartana - consumata insieme in refettorio, abbiamo incontrato Chiara, l'eremita dell'Eremo - che mio fratello chiama l'Erema, risparmiando una sillaba intera - le abbiamo fatto qualche domanda e l'abbiamo ascoltata. Devo dire che ero - eravamo - un po' tutti perplessi per il tipo di persona che potesse essere ma che, dopo le sue parole, semplici ma profonde - per quanto non sia certo io deputato a dare questo genere di patenti - nonostante alcuni passi sui quali manifesterei riserve più di sensibilità che di contenuto, l'ho senza dubbio rivalutata, convinto dai tanti dettagli che ne rivelavano la fede autentica insieme con l'umiltà e la saggezza.

Nella foto, la combriccola fuori dall'Eremo di Cerbaiolo

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Compagni di cammino

Chiedo scusa se la tiro un po' per le lunghe, prima di riportare il Diario del Cammino, ma in effetti mi è parso necessario dedicare del tempo, delle righe e della banda per menzionare coloro con cui ho condiviso quest'esperienza. So bene che si tratta di un comportamento del tutto inusuale, visto che le mie Cronache sono tutte squisitamente Casati-centriche, ma un conto è fare una settimana di campo con sessanta-settanta adolescenti, un altro conto è camminare per una settimana in sedici, sudare in sedici, sanguinare in un po' meno di sedici ma comunque in tanti, spendere tempo e parole sempre con le stesse persone, che per giocoforza diventano - anche quelle con cui, in condizioni standard, hai meno a che fare - veri e propri compagni di cammino, dove per cammino non s'intende solo mettere un piede davanti all'altro.
Passiamo allora a menzionarli, da sinistra a destra, dall'alto in basso.

  • don Alessandro Dehò, il nostro curato interparrocchiale, che tra le varie manie ha anche quella del cd. "goom" (potrei informarmi e vedere come si scrive davvero, visto che dubito sia scritto così, ma più ne sto alla larga meglio è), che dalle informazioni in mio possesso sembra essere una specie di tortura per scout, cioè cammino in solitudine nel più deserto possibile (per dire, da noi lo fanno in Sicilia, o in Puglia) con il gusto di non avere soldi in tasca, fare la fame, dormire all'addiaccio ed essere maltrattati, per quanto possibile, dai capigruppo. Fortunatamente, le uniche cose che il nostro pellegrinaggio aveva in comune erano la meditazione del mattino ed il caldo torrido - e forse la puzza, ma noi bene o male facevamo la doccia tutti i giorni, il problema erano più che altro zaini e abiti.
  • Enrico, fratello del don, appassionato camminatore ed a propria insaputa massimo fomentatore delle mie invidie, quando su Facebook mette le foto delle sue gite, tra ciaspolate notturne e linea Gotica.
  • Herbert, alias don Acca (per mio fratello) o Eriberto (per me); già presidente dell'UPEE di Bergamo, da quasi due anni adottato dagli OrSI, è in tutta la provincia noto come quello dei CD del CRE o, più di recente, di Granita Mix. Il nomignolo datogli da mio fratello rileva la tendenza degli ex presidenti dell'UPEE di andare in Seminario, ma per ora non se n'è fatto ancora nulla.
  • Maria, laica consacrata che fa servizio durante l'anno nella parrocchia di Negrone e come educatrice dei giovani OrSI. Segni particolari: nessuno l'ha mai vista senza pantaloni lunghi. Nemmeno in piscina.
  • Marco; anche se da qualche tempo ha passato il testimone, nella mia testa rimarrà sempre il presidente del GAP (Gruppo Alpinistico Presolana) di Scanzo. Unitosi a noi durante la tappa Sansepolcro-Città di Castello, si è rivelato ad un tempo preziosissimo per la sua attività di farmacista come paramedico (dopo questi giorni, secondo me si è meritato sul campo la specializzazione in podologia) e impagabile socio, specie delle follie di mio fratello.
  • Chiara, la di lui moglie, che è partita con noi fin dal primo giorno, svolgendo per giunta le funzioni di cuoca per i primi due giorni, quando i pasti erano lasciati alla nostra autogestione. Durante un'appassionata discussione, a tavola, sulle macchine utensili a controllo numerico si è scoperto che le stavamo rovinando le ferie parlandole di lavoro.
  • Sergio, giovane ed educatore degli adolescenti - praticamente ricomparso dopo mesi di latitanza, visto che lavorando non può certo impegnarsi nel CRE, e che quindi non lo si vedeva dai primi di giugno. È tra quanti, durante la terza tappa, hanno smarrito il segnavia ed hanno percorso il più improbabile dei tragitti tra Sansepolcro e Città di Castello, giungendovi distrutti nel corpo e nello spirito.
  • Davide Casati, che come il cognome suggerisce è mio cugino. Nonostante - anzi, secondo me proprio a causa di, visto che sviluppano tanto i muscoli e tanto poco ossa e articolazioni - i lunghi anni di attività calcistica, si è dimostrato (absit iniuria verbis, sono parole sue) "la carretta del gruppo", nel senso che i piedi gli si sono presto rifiutati di camminare nelle scarpe da trekking, o in quelle di ginnastica, o in qualsiasi altra cosa per più di sette ore al giorno, e solo stringendo i denti e con massicce dosi di antidolorifico è riuscito a giungere, ferito ma non piegato, alla fine del cammino.
  • Morgana, che sarebbe la morosa di mio cugino; ormai da quasi due anni. Appartiene alla famiglia Pezzotta di Gavarno (da non confondere con le altre innumerevoli famiglie Pezzotta di Tribulina) che, con quasi tutti i suoi membri, è da sempre una delle più appassionate e presenti famiglie di collaboratori degli OrSI. Specialmente, è nota la madre in quanto cuoca ufficiale dei campi.
  • Francesco Casati, che essendo mio fratello non c'è nulla da dire in proposito, se non fischi. Specialmente per l'attività di buffone del gruppo alacremente svolta, senza requie; emblematico l'autostop per Rimini, quando noi si vagava per l'appennino Tosco-Romagnolo.
  • Paolo, che era uno dei "miei" ormai ex-adolescenti di quinta superiore, l'anno appena trascorso. Come abbia fatto fino al campo di Braies ad ignorare che fosse un maniaco di calcio, e che fosse capace di intavolare discussioni lunghe ore sul mercato dell'Albinoleffe, insieme a mio fratello, resta un mistero.
  • Valentina, la prima in questo elenco di quelle che, senza cattiveria, dopo tipo venti minuti già erano state soprannominate "le bambine", cioè le adolescenti che si erano associate con noi per il cammino. Non esaltantissima come conversatrice, nonostante non sia certo parca di parole, specie di quelle che cominciano con stra. Il mio giudizio inappellabile è "brava". Forse fin troppo. Tipo che l'aspetto al varco, sulla porta di un convento.
  • Irene, che non gliela meno ancora per il fatto di essere una scout solo perché l'ho fatto ininterrottamente per una settimana. "Migliore amica x sempre" della precedente, pare che la presenza di quella sia stata la causa della presenza di questa. Due episodi rimarranno nella memoria: camminare ripassando dal libro di latino, e «Non possiamo tagliare?», domanda di rito rivolta al Portatore delle Mappe ogni mattina, ogni sera, praticamente ogni momento in cui io avessi in mano una carta, cioè sempre.
  • Sara, talmente impegnata a commuoversi, emozionarsi, stupefarsi o comunque altri verbi riflessivi per stancarsi; capace di arrivare per ultima, perché trattenutasi a saccheggiare tutti i cespugli di more trovati lungo il percorso, e «ne abbiamo mangiate un quintale!»; talmente alieni l'uno all'altra da raggiungere il parossismo in dialoghi tipo «Hai visto che bello quel pezzo di sentiero? Il panorama?» «Eravamo a settecento metri, c'erano trentacinque gradi, sentiero esposto a sudovest, niente alberi se non boscaglia riarsa, rocce nere, vulcaniche - un'ora dalla tappa precedente, un'ora e mezza dalla successiva. Cosa c'era di "bellO"?»
  • Luca, che se le cose vanno come credo sarà nel mio gruppo adolescenti da ottobre. Insieme a mio fratello ed a Paolo formavano il terzetto chiamato dei "giovani", a cui venivano riservati i compiti più ingrati, del tipo dormire in tre in un letto matrimoniale - o, come la prima notte, dormire in tre in terra in cucina, per solidarietà a mio fratello che ne aveva sparata un'altra delle sue. Il pusher del gruppo, era in grado di fornire creatina all'intera nazionale di ciclismo kazaka, con quello che aveva nello zaino; in onesta concorrenza con Valentina, che parimenti era stata stipata di "integratori" dal genitore-rambo.

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domenica 10 maggio 2009

Sentiero Caslini - variante

Ieri si è tenuta la tradizionale marcia da Scanzorosciate fino alla Malga Lunga di Sovere; e non dev'essere un caso che in questi giorni si sono moltiplicati i download del tracciato del Sentiero Caslini che ho realizzato in occasione della mia ultima visita. Ora, io non ho mai ricevuto critiche su quel tracciato, che in effetti riproduce il mio itinerario di quella volta, ma in questo ultimo anno e mezzo la situazione è cambiata. Per cominciare, il CAI della Val Cavallina ha compiuto una colossale opera di segnalazione sentieri e, dunque, il segnavia "Sentiero A. Caslini (Rocco)" è presente ed installato (a volte con l'indicazione del tempo stimato di percorso, perlopiù senza) già a partire dalla sbarra di Gavarno. Per ragioni a me oscure, tra l'altro, nel tratto Forcella di Valle Rossa-Forcella di Ranzanico non abbiamo nemmeno seguito il segnavia e, penso per risparmiare tempo, ci è stato fatto tagliare per pascoli, in assenza di sentiero o traccia, e capisco perché a suo tempo i proprietari avevano avuto da ridire, essendoci - stando alle mappe CAI - un sentiero che fa lo stesso percorso, magari con un po' più di giri, ma segnato e "regolare"; tra l'altro, non deve essere una facile sfida ricostruire il percorso tra quei pascoli, senza la segnaletica temporanea e l'erba calpestata da chi è passato prima di te.

Ad ogni modo, leggo dal precendente tracciato che con mio fratello avevo fatto già un bel casino in località Cascina Scapla, tra i pascoli di Altinello ed la forcella di Valle Rossa. Inoltre, va aggiunta la descrizione del sentiero "vero", che dalla Forcella sale alla Croce di Bianzano e poi, dapprima ancora per bosco e poi per pascoli, conduce alla Forcella di Ranzanico per l'itinerario più diretto (benché, voglio ricordare, il sentiero CAI in questo settore non fa lo stesso percorso).

Ridendo e scherzando (no, non è vero, sputando sangue e sudore) ieri ho anche battuto il mio record sul percorso, mettendoci sei ore (e dovendo in questo tempo contare le pause ai punti di ristoro e quelle obbligate da incipienti collassi cardiorespiratori).

Ho sostituito il file che nell'altro post viene scaricato, che comunque è scaricabile anche cliccando qui.

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domenica 3 maggio 2009

Conca del Farno e pizzo Formico

Favorito dal lungo weekend, dal bel tempo e - in maniera determinante, come mi ha fatto capire il negoziante di Cirano - dal buon tempo, sabato mi sono cimentato nella prima vera escursione di questa stagione, cominciata troppo tardi per via dello sfigatissimo meteo di aprile, prima con gli scarponi nuovi che andavano inaugurati prima della Malga Longa di sabato prossimo - belli, neh...ma va bene rigidi e tutto per l'alta quota, ma per la bassa montagna un po' eccessivi.

Dopo lunghi tentennamenti e continui abboccamenti con i miei consiglieri, ho optato per salire al pizzo Formico, che già avevo messo in programma per inizio aprile e che poi era saltato. Per non fare le cose facili, ho posto la partenza a Cirano, negletta frazione di Gandino (negletta, perché tutti conoscono Barzizza, ma Cirano non se lo fila nessuno). L'idea era salire per la lunga Val Concossoio fino alla Montagnina, e di lì al Formico. Ma l'azione congiunta di una cartina a grande scala e del fatto che il parcheggio fosse ad una certa distanza dal sentiero, e che quindi si dovesse fare un po' di strada asfaltata, che si somigliano tutti mi hanno messo sul sentiero che più decisamente puntava verso l'alto, a prescindere dall'effettiva fattibilità e più o meno anche della direzione, e quindi mi ritrovo ad inerpicarmi su per il Gerù (ghiaione, per gli extraorobici), finché incrocio un segnavia CAI che - già lo sospettavo, peraltro - numerandosi 549 tradiva il Barzizza-Formico, e che quindi seguo salendo e rimontando ed arrancando fino alla grande croce lignea che sovrasta Cirano ed alla cappella del CAI di Gandino, dove c'è anche una fonte - cosa in linea teorica rara, in questa zona, e saranno state le piogge d'aprile sarò stato io che mi confondo con la zona dei Monticelli, in effetti di fonti non tante, ma alcune si trovano - da cui mi arrischio a bere nonostante frammenti non identificati galleggino nel mio bicchiere, dopo averlo riempito. Un'ora ed un quarto dalla partenza.

Visto che ormai sto facendo l'anello al contrario, decido di farlo fino in fondo, e devio in costa alla sinistra, tagliando alto il gerù, lungo quello che la mappa indicherebbe come segnavia 545 ed i segnavia 549A, urge procurarsi una mappa aggiornata del CAI, per arrivare nel bel mezzo della Conca del Farno (l'immagine che sembra uno sfondo di Windows) - dove perdo un po' il sentiero e punto a vista verso la grande croce del Formico che tutto sovrasta (e che da questo punto di vista, dai 1300 metri su cui più o meno mi trovo, sembra molto meno imponente che visto da Clusone), fino ad incrociare la carrareccia del Farno ed a scorgere, oltre ad una teoria di escursionisti che procedono verso la vetta, un segnavia CAI che mi indica la strada.

La salita al Formico non è particolarmente interessante; guadagna qualcosa quando si sbuca sullo spartiacque tra Val Gandino e Val Seriana, con la vista sui molti paesi donde inizia l'alta valle, Ponte Nossa e Parre sopra tutti, e certo Clusone con le sue chiese nel suo altopiano. Qua e là, ai lati del sentiero, gli ultimi accumuli di neve. Arrivo alla grande croce, mezz'ora dall'attacco, e mi riposo quel poco che basta per veder venire degli ardimentosi in trial-bike che si sono issati fin qui portandosela a spalla, e così ora scenderanno come dei matti. Scendo dall'altro lato, abbassandomi rapidamente alla Forcella Larga, ai ruderi (ma costruivano in cemento armato??) della Capanna Ilaria e di lì verso lo spartiacque tra la conca del Farno e la Val Borlezza, dove si trova un laghetto, un tabiotto che ha l'aria di essere stato usato, negli anni '70, tipo come noleggio pattini ed una cappella, dove mi fermo a pranzo. Mezz'ora dalla vetta (l'immagine con la croce, ovviamente, via Flickr).

Dal laghetto della Montagnina la direzione da prendere per chiudere il mio anello è controintuitiva. Evitando di seguire la traccia più battuta, che rimonta di una cinquantina di metri il dosso erboso e conduce - presumibilmente, e a posteriori perché sulla mia mappa non è segnato nulla - al rifugio Parafulmine, si scende lungo un sentiero poco battuto (ma indicato dagli onnipresenti segnali di divieto d'accesso, manco fossimo in un centro storico) che, dapprima nella macchia poi in bosco si abbassa, non senza qualche evoluzione per evitare abeti caduti, al Campo d'Avene (1222m), un immenso prato ritagliato nel bosco, con una baita ed un crocifisso nel mezzo, sul cui limitare si diparte il sentiero CAI 548 che, discendend tutta la Val Concossoio, rimena a Cirano. Per la prima mezz'ora la discesa è veramente gratificante. Si procede incassati tra le franose e dolomitiche (Formazione di Castro secondo la Carta Geologica della Provincia) pendici del sistema pizzo Secco-monte Corno sulla sinistra (croce che imperiosa svetta sulle guglie, mi sembra ci sia anche una ferrata che vi giunge dall'altro versante) ed i piedi dell'ampia costa della Guazza (la mia mappa riporta "Prati del Sole") sulla destra. Un ruscello scorre nella valle e spesso, essendo il sentiero costretto a passaggi a volte un po' fini a sé stessi dall'una all'altra sua sponda, lo si attraversa; si incontra una piccola edicola dedicata a Sant'Anna in memoria dei morti del Campo d'Avene (e non è chiarissimo, almeno a me, se facesse riferimento a qualche tragico fatto della Resistenza, visto che è zona e pare che il Campo sia stato bombardato in quell'occasione, o a non meglio specificati operai morti durante qualche lavoro) e si giunge ad una carrareccia silvopastorale che fa da strada di servizio ai molti casolari sparsi tra bosco e pascoli. La discesa si fa noiosissima, ed a volte eccessivamente ripida, perché difetto della Val Gandino è avere la testata, su cui mi trovavo alla Montagnina, distante chilometri dai paesi. Si supera, tra le altre cose, una graziosa cappelletta con il portico che si allunga scavalcando il sentiero, una fonte abbondantissima e ottima, e si giunge alla chiesa di San Gottardo, a pochi minuti di cammino dal parcheggio e dall'auto. 1h30' dalla Montagnina.

È come sempre disponibile il file del tracciato per la visualizzazione con Google Earth.

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domenica 26 aprile 2009

Pampuro - le foto ed i video

Sono state caricate su Facebook le foto della gita a Pampuro e Verona di settimana scorsa.

Inoltre, sul canale video di YouTube sono disponibili i video girati nell'occasione (di cui ne riporto uno in anteprima)

Per gli altri video cercare qui e qui

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lunedì 13 aprile 2009

OrsInfo a Pasquetta

Orrendo neologismo nel titolo per significare la Gita informale degli Oratori di Scanzorosciate Insieme; informale perché era semplicemente una gita senza pretese, degli Oratori eccetera eccetera perché, appunto, siamo andati con un gruppo, ristretto ma bello, dei nostri Oratori; un venticinque persone con cui stavamo larghi nel pullman piccolo.

Dopo che la primitiva ipotesi per meta, cioè le isole di Murano Burano e Torcello nella laguna veneta, era tramontata di fronte all'insormontabile problema del costo, per una settimana abbiamo fatto a gara a chi proponeva la gita più fattibile; ed alla fine, tra le mille proposte messe in campo, l'ha spuntata - eh eh - una delle mie, cioè l'abbazia di Bobbio (PC), anche se poi - per riempire la giornata - al programma si sono aggiunte Piacenza e l'improbabile Grazzano Visconti.
Ma ora ecco una cronaca minima (con il corsivo enfatico perché già immagino che minima lo sarà ben poco.

Considerato che eravamo tornati da Jesolo la domenica sera, la sveglia del lunedì di Pasqua alle sette meno venti non è stata del tutto indolore. Fortunatamente si era in buona compagnia, di quelli che domenica avevano fatto bello, e che si presentano in ritardo all'appuntamento, ore 7.30 piazzale della farmacia di Scanzo. Pochi adolescenti, perlopiù giovani - tra i quali abituées assortiti e personaggi improbabili; alcuni mascherano il sonno con le stupidaggini o - meglio - avendo sonno il loro cervello non mette filtro alle parole; ma è solo quello che credo, e quasi una speranza: la situazione, più che altro, è che l'uscita informale permette anche a quelli che solitamente sono compassati educatori di dar fuori di matto. E così, tra un "Fischi!" ed una risata ci mettiamo in moto, attraversando la pianura padana e, in un paio d'ore abbondanti, risalendo l'appennino - le collinette che qui chiamano montagne, per essere precisi - arriviamo a Bobbio, che ad onor del vero non ci si presenta col suo lato migliore (per intenderci, quello nella foto), ma piuttosto con quello di un noioso paesotto moderno. Superato l'infelice impatto iniziale, ci inoltriamo nel paese e nel centro storico e facciamo un giro a vuoto intanto che individuiamo una chiesa - tra le quattro-cinque presenti - il cui orario delle messe coincida con le nostre esigenze. Troviamo la messa della Cattedrale (già, perché la diocesi è Piacenza-Bobbio) durante la quale ci godiamo la Sequenza di Pasqua cantata in buon latino, e con ottima voce solista, dal celebrante ed un organo con un ripieno finale clamoroso, che quasi Notre Dame a Parigi. Dopo Messa ci inerpichiamo al castello (come? già finita la montagna?) per pranzo, e dopo una rapida visita al monastero rimontiamo sul pullman. E sveliamo perché mi sia venuto in mente di proporre Bobbio ed il monastero di San Colombano (uno dei più antichi del nord Italia, se non il più antico, finché non si abbatté la scure napoleonica); la causa della gita va ricondotta al mio famoso romanzo (Illa Diva de eis qui eam quaeritant, sul sito la riscrittura del primo libro e qualcosina del secondo, ad avere il tempo...) i cui ultimi capitoli e la catastrofe finale sono appunto ambientati al Monasterium Columbani Hiberni, cioè al monastero dell'irlandese Colombano...e volevo vedere un po' dal vivo i luoghi, e mi sa che qualcosina, se mai arriverò a rivedere anche il terzo libro, andrà toccato.

Seconda tappa della gita doveva essere, in teoria, soltanto una mera curiosità turistica, il borgo di Grazzano Visconti, segno di come possano essere folli e geniali i nobili, con questo paese finto quattrocentesco deliberatamente costruito a copiare un inesistente borgo medioevale, costruito ad inizio '900 con botteghe artigiane, case vere (dalla villa di ricchi svizzeri a più modesti appartamenti) ed inspiegabile attrazione turistica (la maggiore attrazione turistica del piacentino, pare) - quando abbiamo visto la folla che ne percorreva le vie abbiamo avuto la tentazione di girare il pullman e fuggire - per un'umanità variegata, dalla solita famiglia di milanesi al gruppetto di gothic-dark-doom-metallari che avrebbero fatto sembrare intonato un novello savonarola a caccia di streghe. Visto che era metà pomeriggio, ci stava una birrettina, ma abbiamo faticato mezz'ora per trovare posto e farci servire all'affollatissima taverna del biscione (perché i fondatori/proprietari del paese - e proprietari da ben prima che il paese avesse la forma attuale - sono, se non lo si fosse capito, i milanesi Visconti) da sofferenti cameriere in pedagnù pseudorinascimentale. Il fornitore di birra del locale è il parmense birrificio del Ducato, cui noi abbiamo pensato di far onore provando...tutte le birre di loro produzione, e trovando alcune chicche veramente degne di nota.

Decisamente soddisfatti ce ne siamo andati, per raggiungere la meta finale, cioè Piacenza cui siamo arrivati nel tardo pomeriggio. L'idea originaria non comprendeva la visita alla città anche perché - non me ne vogliano i piacentini - non è che ci sia chissà che da vedere (a parte sapere del wifi in piazza, ed alcune piacentine passeggianti che però, a occhio, erano sul limitare del Codice Penale) - nonostante noi ci sia messi d'impegno e si siano visitate cattedrale e chiesa di Sant'Antonino.

Rinfrancati in corpo da un frappé con troppo poco gelato ed in spirito da un manifesto della Democrazia Cristiana (non quella schifezza di Rotondi con la bandiera, ma proprio il caro vecchio scudocrociato con tanto di Libertas) che credo sia di Pizza, siamo dunque ripartiti per Scanzorosciate - schivando sbrufì e sbrufù di pioggia e grandine, ma purtroppo beccandoci in pieno tutte le idiozie che menti stanche da una giornata di allegro turismo possono partorire (Guaranita per dirne una, ma anche Starsky e Accy, e troppe - ad ogni modo - per registrarle tutte. Fischi.)

L'unica riflessione è che se noi educatori dobbiamo anche metterci a tirare il "gruppo info", mai nato ente organizzatore di questo genere di attività, stiamo freschi o, come dicevo nell'ultima riunione, mettiamo su un Ordine Secolare e prendiamo tutti quanti i voti (o, visto che va di moda di questi tempi nella Chiesa - e io credo sia colpa degli ambrosiani, è sempre colpa loro - facciamo una congregazione laica che se cambiamo idea siamo sempre a tempo). Ma io lo faccio solo se prima mi precedono tutti gli altri.

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giovedì 19 marzo 2009

Filaressa '09

Lentamente riprendo il ritmo delle escursioni in montagna, poiché il programma camminatorio per quest'estate si preannuncia intenso ed è bene arrivarci ben preparati (e il lunedì di Pasqua si ha in programma un'escursione tutt'altro che leggera); così, dopo un'uscita propedeutica sui colli d'Argon la settimana scorsa, ieri ho approfittato di un due ore e mezza-tre del pomeriggio per sgranchirmi le gambe su una delle cime più rapide dei dintorni, quella Filaressa che, pur sfiorando spesso nella celebre Selvinata (il segnavia 533 CAI-BG da Monterosso a Selvino, appunto) ho salito solo una volta in una torrida mattina di fine maggio del 2006; ben prima di avere questo blog, dunque, e quindi immagino che i miei lettori non ne siano informati.

Il sentiero parte da Nese di Alzano, ad onor del vero, ma penso che sia veramente insensato chi, salvo doversi allenare alla corsa in montagna, non inizi a calcare il sentiero dal forcellino di Monte di Nese, frazione di Alzano sugli 800 metri di quota, nei pressi del quale c'è un ampio e comodo parcheggio (quasi sempre vuoto, credo di averlo visto pieno solo un 25 aprile). Il segnavia è il numero 511 CAI-BG che in decisa salita punta all'insellatura tra il monte Filaressa sulla destra ed il monte Cavallo sulla sinistra, insellatura presidiata da una chiesetta e per la quale, oltre ad incrociare il già citato sentiero verde che porta a Selvino, passa anche il sentiero che scende a Poscante di Zogno (considerato il luogo d'origine del leggendario Pacì Paciana, non il discusso Centro Sociale di Bergamo ma ol Robin Hood dé la 'al Brembana). Evitando di scervellarsi cercando di interpretare i vetusti cartelli indicatori del CAI di Bergamo, quasi illeggibili, subito dopo la forcella dapprima si sale a sinistra seguendo le indicazioni poste dal CAI della Val Seriana, più recenti (511 Filaressa, mentre il 533 Selvino, ammesso che lo troviate, va ignorato in quanto raggiunge, stando basso, il Castello di Monte di Nese e prosegue di lì per Salmezza), per una strada bianca dalla pendenza notevole al cui termine si percorre a mezza costa una traccia di terra che attraversa dei pascoli.

A questo punto sono passati venti minuti scarsi dalla partenza, ma si ha un po' di fiatone perché si è macinato più di metà dislivello. Fortunatamente, nonostante il giallo di questa stagione che suggerisce come non sia poi molto che la neve s'è sciolta, questa pausa oltre a permettere di tirare il fiato è anche sufficientemente amena, e permette di osservare ad un tempo le ultime propaggini della Val Seriana a sinistra (e peccato per la foschia di ieri) e gli affioramenti rocciosi che caratterizzano la Val Brembana basse a sinistra (si riconoscono pieghe, guglie, anche una grotta).

Il sentiero riprende a salire stando sul crinale del monte, ma presto il segnavia, molto marcato, si stacca a destra e punta verso una rada macchia boscosa. Tradizionalmente io proseguo sul crinale, anche se mi rendo conto che la versione "ufficiale" del sentiero è più agevole e porta comunque, nel giro di cinque minuti, al bivio del sentiero. In questo tratto è sempre più evidente la natura dolomitica della Filaressa, con guglie rocciose che affiancano il sentiero e tra le quali talvolta ci si deve inoltrare. Il bivio non è di immediata identificazione. Il cartello metallico segna a sinistra per Salmezza, mentre su un sasso è segnata, con vernice sbiadita, una freccia, mentre si intravede l'indicazione Filaressa.

Io, seguendo la cosiddetta (da me) "Via Salmezza", seguo le indicazioni che portano ad abbassarsi velocemente lungo il dirupato versante nord della Filaressa, dove in questi giorni si trovano ancora rari depositi di neve; si rivolge un pensiero ed una preghiera al povero decenne precipitato e perito durante una colonia estiva degli anni sessanta, di cui il ricordo è mantenuto vivo da una lapide e si arriva all'evidente valico tra la Filaressa ed il Costone di Salmezza. Lungo questo tratto vengo distratto da alcuni fischi di rapaci, e riesco ad immortalare, come il servizio fotografico in allegato testimonia, una coppia - ok, se ne vede solo uno, ma ce n'erano due - di probabili falchi che volteggiano tranquilli e feraci. Qui inizia la parte più divertente della salita: ignorando le indicazioni per Salmezza di sale, aiutati da uno dei soliti cartelli indicatori, per il ripido sentierino che, sulla destra, rimonta l'arido versante; sentiero talmente ripido per cui, a volte, non si disdegna l'uso delle mani. La croce della Filaressa si vede spuntare sopra la nostra testa tra gli ultimi contrafforti rocciosi, ma il nostro sentiero preferisce lasciarla a sinistra fino ad infilarsi in un intaglio tra due rocce affioranti e, aiutati da una superflua corda metallica, tornare sul crinale a poche decine di metri dalla vetta, che si raggiunge in breve voltando a sinistra. L'attacco diretto alla vetta sembra - ma io non sono un arrampicatore - possibile, benché risulti non banale uscire in vetta per via dell'eccesso di zelo del gruppo escursionistico Paleocapa di Alzano che negli anni '70, oltre ad erigere la croce, ritenne anche di utilizzare la corda metallica a mo' di parapetto tutto attorno alla vetta.

La discesa lungo il sentiero standard è rapida e banale, ed in poco tempo si torna alla Forcella da cui all'auto. Tempo richiesto per il breve giro, considerato che non sono ancora al pieno della forma, un'ora e mezza.

Su Facebook (Facebook è il nuovo Space) ho caricato alcune delle foto della passeggiata, mentre come al solito metto a disposizione il tracciato di Google Earth per chi volesse replicare.

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giovedì 15 gennaio 2009

Val Bondione e Val Cerviera - Le foto

Visto che meglio tardi che mai, e nonostante abbia fatto di tutto per non meritarmele, ho ricevuto le foto della due giorni di settembre passata in montagna con alcuni fidati compagni d'università, tra la Val Bondione e la Val Cerviera. Ho caricato alcune delle immagini ricevute a questo indirizzo. La foto del pizzo Strinato con il sole alle spalle non è uscita particolarmente bene, ma effettivamente la fotografa m'aveva detto che sarebbe stata delicata.

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domenica 7 dicembre 2008

Nìf

Le decisioni prese il venerdì sera, davanti ad un boccale di birra d'abbazia, sono sempre quelle di cui ci si pente meno. Questa settimana, la decisione presa è stata «Domani andiamo a fare un giro e finalmente vediamo un po' di neve vera» - a Bergamo ha solo spruzzato la settimana scorsa, come si dice, e piovuto questa.

Qualche piccola resistenza va smussata, ed è opportuno rinunciare agli obiettivi presenti nella mia testa, e si scende al compromesso secondo il quale la decisione è mia, così come la responsabilità in caso di poco gradimento.

Visto che sono anni che mi si ricrimina aver mentito a proposito della lunghezza di un'escursione (ho detto cinque, erano otto), ho ridimensionato i programmi ed anche spostato di una buon'ora in avanti l'orario di partenza presunta. La neve di più facile accesso, retaggio della mia infanzia, è quella di Valcava, cinque cascine e dieci seconde case (di quando negli anni '60 ci si illudeva dello sviluppo turistico della bassa montagna) a cavallo tra la Val San Martino (quella che da Erve e Vercurago scende a Pontida) e la Valle Imagna. Si sale da Torre de' Busi, per dodici chilometri di stretta strada contorta. Valcava sorge sui rilievi che si innalzano dalla piana di Almenno, a serrare verso sudovest la Valle Imagna, e che si innalzano, dapprima con la placida costiera dell'Albenza, poi sempre più aspri e rocciosi fino alle bastionate del Resegone, a fare da estremo limite alle Alpi verso la pianura; tanto che, subito dopo la partenza da Rosciate, già li si vedono innalzarsi, con la sommità imbiancata.

Già avvicinandosi, e più ancora percorrendone i tornanti, si capisce come non sia solo la cima ad essere imbiancata, ma anzi l'innevamento sia più che sufficiente, per vedere la neve. Inoltre, lasciatici alle spalle la nebbia rada che invade la pianura (che si concretizza, per noi, in cappa di grigio sopra Scanzo e visibilità a settanta metri a Pontida), la giornata è limpidissima e si vede tutta la corona delle Alpi Occidentali, dal Monviso al Rosa, innalzarsi dal grigio della Pianura Padana. Arrivati al valico, infilo gli scarponi «Ecco! Lo sapevo che tramavi qualcosa. Io non vengo!» e, seguendo un anziano con gli sci da fondo che subito dopo essersi messo sul sentiero di cresta (molto ampia e pianeggiante) è sparito dalla nostra vista, ci incamminiamo nella selva di ripetitori (che permettono a mezza bergamasca di vedere la televisione) verso il Linzone. Dove il sentiero è già battuto la neve è compressa e si cammina quasi agevolmente, mentre avventurarsi nella neve fresca è utile solo allo scopo di inzupparsi, essere ridicoli e prendere un gran freddo.

Dopo aver fatto una passeggiata, aver sudato un bel po' ed aver visto il sole sparire dietro un nuovo strato di nuvole formatosi nell'oretta che ci siamo fermati, abbiamo deciso di scendere verso la Valle Imagna, incuranti delle indicazioni in senso contrario di un motociclista che era salito da là, e pregava che la discesa dalla parte opposta fosse migliore. Noi, chiaramente, imbocchiamo la strada, che in linea teorica è molto più larga di quella di Torre de' Busi, ma in pratica era praticabile (dove lo era) solo una carreggiata, perché l'altra non era stata sgombrata dalla neve. Costa Imagna, poi la Roncola, Almenno e ritorno a casa, in abbondante anticipo per pranzo.

Segnalo il file di GoogleEarth con il tracciato della passeggiata, e l'album fotografico (è su Facebook, credo sia comunque visibile da tutti). Nell'immagine un'idea dell'ambiente. Tutte le foto sono di Fabio©.

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mercoledì 15 ottobre 2008

Quattro passi d'autunno

Anche se taggarla "escursione" è decisamente troppo, la passeggiata di questo pomeriggio va segnalata anche solo per per il percorso - non perché sia qualcosa di speciale, ma perché vedo nella mia banca dati cartine che una buona parte si è svolta su un sentiero fantasma, non censito e neanche segnato sull'altrimenti maniacalmente precisa mappa del parco dei Colli di Bergamo.

Approfittando della bella giornata e del fatto che il dentista di famiglia, e dunque di mia sorella, è a Ponteranica, mi sono offerto volontario per accompagnarla, onde sfruttare la mezz'ora che avevo messo in conto per provare la strada per la Maresana - contando sulla non eccessiva pendenza e su ampie curve e controcurve, per godermi un po' la guida di montagna. Il Fato, nella forma di un'infermiera-segretaria talmente somigliante ad una mia vecchia conoscenza da tentarmi ogni volta da chiederle se ci conosciamo, mi comunica però che di mezz'ore ce ne vorranno almeno tre, e mi fa capire che è poco saggio fermarmi ad attendere - cosa che non avrei fatto comunque, ma questo è abbastanza insolito e non se lo poteva immaginare. Questo dà dunque la possibilità di raggiungere la Maresana, parcheggiare l'auto e godersi un po' i boschi d'autunno, che in questi giorni guardavo con struggente desiderio dalla finestra di casa.

Tutto il percorso della passeggiata è visibile in questo stralcio della mappa in formato PDF, anche se bisogna stare un po' attenti alla descrizione in quanto si salta di sentiero in sentiero. Il giro si fa in un'ora un po' abbondante.

Partenza dal ristorante sulla Maresana, alla sinistra della foto, seguendo il sentiero CAI BG 502 (non segnalato, mi pare) con le provvidenziali indicazioni Parco dei Colli, in direzione San Rocco (frazione di Ranica). Si procede in pianura su un sentiero comodo, ancorché non molto largo, ed adeguatamente battuto, fino all'incrocio con il sentiero CAI BG 501 (questo è segnato). Si sale a sinistra su un sentiero che sale con pendenza abbastanza decisa, ma ampio e comodo, in direzione dei grossi ripetitori per radio e televisione. Si arriva nei pressi di quella che doveva essere una casa d'abitazione, ed abbastanza signorile, ancora curata ma ridotta a supporto per antenne, badando di non dare troppo nell'occhio e di non sembrare sospetti al carabiniere di guardia (alcuni ecoattentati degli anni passati hanno portato al presidio da parte della forza pubblica degli impianti), non come ho fatto io che, intraprendendo la passeggiata con tanto di giacca e cravatta, ero un po' fuori posto. Di fronte alla casa di cui s'è detto c'è un pilone dell'elettricità, su cui sono tracciati in arancione una croce ed una freccia a destra. Si imbocca (beata incoscienza) un sentierino pochi passi oltre il pilone (e che non troverete sulla cartina), che tenta di seguire la linea di livello ma, dopo una breve discesa, piega leggermente a sinistra in salita. Il bosco è rado ed il sentiero tutt'altro che battuto (era passato qualcuno di recente a tagliare l'erba attorno alle recinzioni di alcune case, e quindi era sgombro; ma dentro il bosco non sei mai sicuro se segui il sentiero o stai improvvisando), ma ci si accorge abbastanza chiaramente che, ad un certo punto, si incrocia un sentiero che sale in lieve pendenza alla tua sinistra (a rigor di logica, da dove stai venendo) e digrada a destra verso un roccolo ben tenuto. Il senso dell'orientamento dice che la croce del disegno è quella del Colle Ranica (più probabilmente è quella di Torre Boldone, ma al momento non sai della sua esistenza), e che quindi bisogna andare a destra, ma anche in salita, e dunque decidiamo di andare a sinistra. Ottima scelta, perché il sentiero torna a girare e si fa pianeggiante, mentre si passa attraverso chiari indizi di una caccia al tesoro (biglietti con mezze parole appesi a diversi alberi lungo il sentiero) e si arriva ad una croce di legno presso la quale gente va in cerca di castagne e c'è un tavolo da picnic. Secondo il Parco dei Colli, siamo arrivati sul sentiero CAI BG 606, praticamente all'altezza del punto panoramico, e ci stiamo ora dirigendo verso est, in direzione della croce in "vetta" al Colle di Ranica. Altra gente in cerca di castagne, ed invece di seguire uno dei cercatori lungo l'ovvio sentiero (ancora il 606, da cartina, ma vi assicuro che non è segnato niente, e che quindi il divertimento è assicurato) per il ristorante Pighèt e l'eliporto, scendo verso nord attraversando un grosso roccolo, intravedendo il tetto del ristorante a destra e quindi tenendo, più o meno, la sinistra (ovviamente, sulla mappa nulla di tutto ciò è segnato, ma vi assicuro che i sentieri ci sono, molti e comodi. A questa fase della passeggiata, ho deciso che porterò il CRE a fare un grande gioco da queste parti). Presto ci si mette su un sentiero abbastanza curato da avere anche canaline per lo scolo dell'acqua, che segue il crinale Colle di Ranica-Croce dei Morti, ma che presto si butta su una carrareccia tenuta ancora meglio, che non so dove vada a sinistra, ma a destra punta decisamente verso il Pighèt, stando alta sopra la strada (segnata sulla mappa) che lo raggiunge. Per risparmiare tempo ed incuriosito dalla piccola folla di cercacastagne che si richiama a gran voce per il bosco, taglio buttandomi nelle foglie che arrivano ne sopra la caviglia e saltando così sulla stradina (asfaltata, checché ne dica la mappa). In breve si sale alla Croce dei Morti (da sempre adorabile per il motteggio che la contraddistingue) (di cui ho trovato solo questa foto d'epoca) e si prende in discesa il sentiero CAI BG 533 per la Maresana (questo è ben segnato, essendo un tratto della celebre Bergamo-Selvino), sempre tra castagni e carpini per tornare al punto di partenza.

Una passeggiata come questa ci voleva, benché si potesse evitare di farla in giacca (presto tolta) e con le scarpe da città (che, ahimè, non si potevano togliere, ma se n'aveva voglia). Il Parco dei Colli andrebbe riscoperto, con tutto che mi manca ancora di percorrere la Valle del Giongo, e sono anni che voglio trovare le sorgenti del Morla. A proposito di Parco, è d'obbligo segnalare l'ottimo sito, da cui - tra l'altro - provengono le foto dei sentieri che ho citato.

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