lunedì 31 agosto 2009

Di qui passò Francesco - Le foto

Chiedo scusa ai lettori, ma ormai questo Facebook fa talmente tutto in uno che proprio non mi è venuto in mente di segnalare altre foto oltre quelle che ho messo tappa per tappa.

Non che siano tutte quelle scattate da mio fratello (che sono troppe, e perlopiù inutili), ma qualcosa in più si trova in questo album pubblico di Facebook - appunto.

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sabato 29 agosto 2009

Di qui passò Francesco - Mappe e bilancio


Inizio subito deludendo i lettori attenti alle pieghe della mia psiche; con bilancio non intendo introspezione, cosa mi aspettavo e cosa mi ha lasciato quest'esperienza, ma piuttosto analisi complessiva del cammino dal punto di vista escursionistico

Per prima cosa, segnalo il must delle escursioni che riporto su questo blog, e cioè il file .kmz che riporta i tracciati delle tappe su Google Earth (o meglio, riporta i tracciati così come li ho percorsi io, e quindi tiene traccia di scortaröle, deviazioni ed errori), e - novità di questa edizione - include i link diretti ai post del blog che le descrivono.

Per quanto riguarda il giudizio sul cammino in generale, bisogna per prima cosa dar conto del fatto che, in giro per la rete, esistono opinioni virulente, che lo stroncano indicandone tutti i limiti, anche in maniera ingenerosa; per quanto non possa non concordare con lo scrivente, e pure a mio avviso il percorso è tutto fuorché per famiglie. Certo, tutti noi siamo arrivati, per quanto acciaccati, fino in fondo, ed io - ad avere un'altra settimana - non mi sarei tirato indietro dal proseguire fino a Poggio Bustone. Ciò non toglie che, se i pellegrinaggi organizzati pianificano di metterci più di dieci giorni, per fare le prime sette tappe, qualcosa vorrà pur dire. Poi ci sono le storie mie, per cui ho apprezzato molto le prime due tappe, che in un modo o nell'altro somigliavano a tappe di montagna, e molto meno quelle che si snodavano sui crinali assolati delle colline, o - peggio ancora - tagliavano pianure su lunghi inesorabili rettifili.

Dal punto di vista tecnico, gli scarponi d'alta montagna che ho portato, e che mi hanno con ogni probabilità incrinato un osso del piede destro, erano del tutto eccessivi; anche se nelle prime due tappe - appunto, si diceva - le scarpe da ginnastica erano un po' leggerine e avrebbero mancato di grip, da Sansepolcro in poi erano più che adatte; solo, c'era il rischio che si infradiciassero, beccando una giornata di pioggia. Poi, con tutto la deferenza che si può portare a chi ha individuato il percorso e scritto la guida, troverei assai azzardato procedere solo con quella o - peggio - affidandosi ai tau gialli che di quando in quando appaiono; come segnavia, ci sono dei cartelli metallici molto accurati soprattutto dal punto di vista dei tempi di percorrenza (a chi mai potrà interessare, però, sapere che gli mancano 6.22 ore a Gubbio?), che però da Gubbio in poi non sono più riportati, ma la segnaletica complessivamente è caotica, e caotizzata dal fatto che si contendono l'attenzione "Di qui passò Francesco" (frecce e tau gialli, cartelli metallici del CAI con tau in evidenza), "Cammino di Assisi" (frecce verdi), "Cammino di Francesco - Via Francigena" (cartelli metallici gialloblu) e, naturalmente, il CAI - che come spesso mi è capitato di vedere in Appennino, segnavia (voce del verbo segnaviare) con massima accuratezza le strade asfaltate, ed è carente nei tratti di sentiero. A mio avviso, ma un po' lo dico anche perché è il mio mestiere, durante le escursioni, è indispensabile avere con sé mappe che diano un minimo di possibilità di orientarsi e trovare punti di riferimento anche esterni al cammino. Purtroppo, le carte Kompass iniziano ad essere disponibili più o meno dalla Madonna di Montecchi in poi; prima, abbiamo trovato in loco una mappa della Comunità Montana Alto Tevere Toscano o come si chiama, ma comunque da Città di Castello a S. Benedetto Vecchio si va quasi completamente alla cieca, e questo - a mio avviso - è un problema specie per chi affronta il cammino da solo o quasi (anche se pure noi abbiamo avuto il nostro bel da fare, a capire dove si fossero persi i nostri colleghi, durante la terza tappa).

Per quanto riguarda il percorso, devo dire che a tratti lo trovo insensato. O, quantomeno, bizzarro - se l'obiettivo è andare ad Assisi, soprattutto. Se divaghiamo, e decidiamo che l'obiettivo possa essere fare un duro trekking per monti e colli, tra Toscana ed Umbria, allora diverse scelte vengono messe sotto una luce diversa; ad ogni modo, rimangono e rimarranno sempre quelle tre-quattro deviazioni che secondo me vanno seriamente considerate, in un'eventuale riedizione della guida. Alcune siamo riuscite a prenderle, durante questa settimana, altre sono rimaste solo sulla carta, perché sconsigliato di lasciare la via vecchia per la nuova. Mi viene quasi voglia di rifarlo, per dimostrare che avrei avuto ragione io...

Nella foto, il "logo" del pellegrinaggio: zaino e Basilica

Le puntate del Diario del Cammino:

  1. Giorno 0
  2. Compagni di cammino
  3. Prima tappa (La Verna - Cerbaiolo)
  4. Seconda tappa (Cerbaiolo - Sansepolcro)
  5. Terza tappa (Sansepolcro - Città di Castello)
  6. Quarta tappa (Città di Castello - Pietralunga)
  7. Quinta tappa (Pietralunga - Gubbio)
  8. Sesta tappa (Gubbio - Biscina)
  9. Settima tappa (Biscina - Assisi)

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19 agosto - Settimo (e ultimo) giorno

Sulla carta questa tappa è lunghetta, ma siamo rinfrancati dal fatto che sia l'ultima. Passando accanto al castello di Biscina si scende dapprima per sterrato, poi per alcuni ripidi tratti di sentiero - che sembrano messi apposta per ostacolare quanti, come mio cugino Davide, procedono coi sandali per via delle vesciche (sandali che, dopo aver provato praticamente quelli di tutti, in data odierna sono i miei - ma se avessimo saputo prima che gli sarebbe venuto così facile camminarci, glieli prestavo già da un paio di giorni) - alternati (perché mi sembra giusto) con altrettanto ripidi strappi in salita, fino alla strada - direi di servizio, visto che è piena di segnali di divieto d'accesso e la carta Kompass ritiene di metterla sotto il teorico livello di massimo invaso del, per il lago di Valfabbrica, che è poi una specie di gigantesco stagno puzzolente causato dallo sbarramento del Chiascio da parte di una diga ciclopica, che chissà se è mai servita a qualcosa di serio. Dopo averla seguita per qualche chilometro fino alla diga, ignorando alcuni segnavia che, stando alle mappe, ci avrebbero offerto certo la visita di una pieve e di un grazioso agglomerato di case, ma regalato un su e giù inutile, ci mettiamo nella piana del Chiascio, dalla località Barcaccia dove un tempo partivano i traghetti per l'attraversamento del fiume (che mi chiedo come sia mai stato possibile navigare senza grattare il fondo), che seguiamo su strada bianca dapprima in pieno sole, poi ombreggiata fino alle porte di Valfabbrica, che raggiungiamo in salita, e sono già due ore e tre quarti dalla partenza.

Dopo esserci procacciati il pranzo, proseguiamo, infilandoci fortunatamente presto, dopo pochi ma intensi minuti di rebatù sull'asfalto, in un fossato/valletta detto Fosso della lupa, in cui si sente l'insolito - per questo pellegrinaggio, direi che è la prima e l'unica volta che capita - gorgogliare di un ruscello non in secca che ci accompagna per quasi tutta la - peraltro assai ripida, a tratti - risalita, che si conclude sul crinale della collina. Altri duecento metri di strada bianca e siamo al GPM della tappa odierna. Su strada asfaltata, in lievissima discesa, giungiamo a Casa Coppe, dove attendiamo gli altri e mangiamo, ospitati per quanto concerne acqua, vino e grappa - prodotta a Pedrengo, ironia della sorte - dai gentilissimi agricoltori. Si scende poi, tutti insieme, dapprima su strada e poi per sterrato fino a poco prima di un poggio (Assisi, ormai, è visibile all'orizzonte dal GPM, ma il Subasio si intravede anche da Biscina) che, tra qualche imprecazione di troppo, risaliamo per ridiscendere ai piedi della collina su cui sorge Assisi. Con qualche incertezza, in silenzio, tentiamo dapprima di raggiungere la basilica superiore risalendo nel bosco, ma il segnavia del CAI si perde nella fratta, e noi con lui. Tornando sulla strada cerchiamo qualsiasi risalita purché non quella segnata sulla guida, che ci porterebbe su fino al cimitero; e troviamo una strada pedonale, chiaramente in ripidissima salita ed in pieno sole; sbuchiamo alla Basilica Inferiore, saliamo la rampa di scale e ci ritroviamo (con Davide, che sotto l'effetto dell'Aulin ci ha preceduto) nel piazzale della Superiore, per concludere il pellegrinaggio.

Nella foto, noi buttati sul piazzale della Basilica Superiore

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18 agosto - Sesto giorno

Dopo una lunga colazione, trascinata tra panifici, pasticcerie e bar di Gubbio, partiamo per quella che dovrebbe essere una tappa di decompressione, ma che si rivelerà delle peggiori, ancorché breve; forse anche per l'ondata di afa che sembra aver investito l'Umbria, considerato che - a sera - scopriamo essere morta una persona di caldo, proprio a Gubbio. Si scende da Gubbio e si esce dalla città, dopo aver gettato un rapido sguardo alla chiesa della conversione del famoso Lupo, prendendo poi un lunghissimo pianeggiante asfaltato rettifilo che taglia la pianura come un coltello, quasi esattamente in direzione sud, fino a Ponte d'Assi, e poi si porta - senza quello spreco di asfalto che sono i tornanti, ma direttamente per la linea di massima pendenza - fino a quota 560, con assurde rampe. Di lì si prosegue il classico saliscendi da crinale, ben presto lasciando l'asfalto per imboccare una delle solite strade bianche, fino a casa Pratale, che sovrasta un bel castello riattato e, dall'altro lato del vallone, un'abbazia che, non fosse che è fuori strada, magari saremmo anche passati a visitare. Poco dopo casa Pratale, dopo un paio di tornanti in discesa che nascondono una provvidenziale fonte, si giunge a Santa Maria delle Ripe, piccola cappella-tabernacolo con una specie di libro di vetta, dove ci si ferma per pranzare. Sembra che il cammino sia più breve e facile del solito, e più breve lo è davvero, stando alle mappe; ma per quanto riguarda la semplicità avrei due o tre cosette da dire, considerato che dopo pranzo saliamo leggermente fino all'eremo di San Pietro in Vigneto, e poi scendiamo sempre su strada bianca per qualche tratto, prima di immetterci nel delirio. Scendiamo ripidissimi in una specie di fosso di scolo, fino a raggiungere il fondo di una valletta, sovrastati dal viadotto di un acquedotto (o gasdotto, o altro dotto); risaliamo poi dall'altro versante, per bosco e boscaglia, fino ad una vecchia chiesa sovrastata dal castello di Biscina, nostra meta, che sembra a portata di mano appena una sessantina di metri più in alto. Sembra, perché scendiamo nuovamente l'ennesima stretta ed ombrosa valletta, guadiamo un torrentello e risaliamo l'altro versante, di terra nuda sotto un sole battente per oltre un centinaio di metri. Dove il sentiero, ormai tornato viottolo, sbuca sulla strada - asfaltata - che percorre il crinale c'è una presa d'acqua (accanto ad una sorta di paradiso del barbecue) che al tempo stesso mi salva la vita e me l'accorcia parecchio, in quanto - abbondantemente dissetato, e praticamente fradicio di acqua e sudore - sbucando sul crinale battuto dal vento poco ci manca che mi venga una congestione immediata (nonostante i minimo trentacinque gradi, mi tentava la giacca a vento...). Sono poche centinaia di metri, praticamente in piano, prima che si entri nella - spettacolare - tenuta Biscina dove, insieme alla seconda piscina che salto della settimana, ci vengono assegnati due appartamenti in una villetta, vicino ad altri pellegrini - tra cui una berlinese con bambino al seguito che compie il nostro stesso cammino ma con mezzi di fortuna. A ben vedere, domani sera già saremo ad Assisi ed il cammino sarà finito. A questo punto, siamo quasi tutti dell'idea che era ora.

Nella foto, la pausa pranzo presso S. Maria delle Ripe

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giovedì 27 agosto 2009

17 agosto - Quinto giorno

Dapprima si scende fino al fondo della valle, tra discussioni (se seguire il segnavia o il buon senso) che lo scoprire che le diverse vie si riuniscono poco prima della risalita in Pietralunga sopisce - con il buonumore che sempre caratterizza le prime ore di marcia. Dopo la salita e la brevissima visita nel bel borgo di Pietralunga - visita che serve più che altro a fare la spesa per la giornata - scendiamo in una valle isolata, sul nastro d'asfalto (valle ignota alla nostra guida, che ci faceva fare tutto un altro giro, ma noi seguiamo il segnavia che anche nei giorni precedenti si sono dimostrati più saggi, e ci consoliamo pensando che, nel paio d'anni intercorso tra l'edizione in nostro possesso ed oggi, appunto siano stati razionalizzati alcuni tratti di percorso, già di per sé non brillantemente saggio, visto che predilige lunghi giri altalenanti ai percorsi più diretti) fino ad incrociare la carrareccia che sale al nucleo abitato di San Benedetto Vecchio (dove torniamo ad essere d'accordo con la guida) e brevemente scende al vecchio - chiuso ma apparentemente nuovo di pacca - monastero. Si scende ancora, lungo la strada asfaltata che condurrebbe nella piana egubina, fino all'incrocio tra la strada bianca, indicata sia dalla guida che dai segnavia e che con lungo giro ed insensata salita ci porta a scendere nella valle al di là dei poggi che ci sbarrano la strada, ed il sentiero - che si vede benissimo tagliare come una lama e perpendicolare alla linea di massima pendenza - che ci permetterebbe di scavalcarli, seppure passando per la cima di uno di essi rimanendo comunque a quota complessiva più bassa. La mia stima è che, scavalcando appunto questo Monte Spesce, alto settecento e rotti metri, si risparmierebbe almeno un'ora, ma forse anche un'ora e mezza di cammino, per giunta evitando di superare gli ottocento metri del Poggio del Prato. Il fattore, ma più che altro le sue vacche e - soprattutto - i suoi tori al pascolo ci fanno optare per la strada più lunga, mentre un gruppetto di noi, i più disastrati, decidono di scendere per la strada asfaltata che - si calcola - comunque è facilmente percorribile e fa risparmiare parecchio tempo. Dopo, infatti, che la tappa di ieri ed il primo paio d'ore della tappa odierna si erano svolte senza la "copertura" di una carta diversa da quella, abbastanza limitata, riportata sulla guida, siamo finalmente entrati nella zona coperta dalla Kompass Gubbio-Fabriano, e quindi sappiamo valutare con precisione eventuali percorsi alternativi.

Ci aspettava una lunga risalita su una delle consuete abbacinanti strade bianche, tra vecchi cascinali in avanzato stato d'abbandono, fino ad una bella pineta sommitale ed una ripidissima - ai limiti dello spaccagambe discesa che ci riporta su una strada asfaltata - dall'altro lato del famoso Monte Spesce. Lunga e riarsa traversata, tra saliscendi e senza un goccio d'acqua - da Pietralunga, neanche una stilla - fino alla Madonna dei Montecchi, dove invece di acqua ce n'è parecchia, ed anche ottima - almeno per gli standard dell'acqua umbra. Eccetto il don, che dapprima per un malinteso è corso avanti (pensando aver io tagliato per sentieri che in effetti avevo indicato, ma che mr. Gap aveva sconsigliato) e poi ha deciso di proseguire fino a raggiungere quanti scendevano per strada, attendo gli altri in modo che ci si fermi insieme a pranzare. Sollecitati da un violento temporale che si gonfiava alle nostre spalle ripartiamo fino ad arrivare alla frazione di Loreto, appena in tempo prima che si scateni l'Apocalisse, da cui ci ripariamo rifugiandoci - grazie al sacrista - nella bella chiesa, dove ci fermiamo per un'oretta in attesa che passino grandine, acqua e fulmini (visto che pochi si fidano della possibilità di costruire una gabbia di Faraday unendo i bastoncini telescopici).

Non ci pentiamo di aver perso un'ora perché il temporale ha - fortunatamente - rinfrescato l'aria e l'ambiente, e quindi scendiamo rilassati (io ho rimesso gli scarponi, temendo più l'umidità del dolore, e del resto i sandali favoriscono le vesciche, che infatti dopo quasi tre giorni di tali calzature si sono formate) dapprima a Monteleto, indi nel bel mezzo della piana di Gubbio, che ancora non si vede nascosta da un cementificio. Attraversiamo questa piana noiosa per qualche chilometro, prima che la città ci si stagli dinanzi, e con la città la prima gelateria del Pellegrinaggio, e con la prima gelateria le strette stradine per cui s'ha da inerpicarsi fino a giungere, abbastanza stremati, al convento delle Domenicane dove siamo ospitati. In effetti, ne valeva la pena, del tramonto a Gubbio. E della serata, giacché si cena in un buon ristorante e si passeggia per le vie, fin troppo animate per via della Missione Giovani dei Frati Minori di Sicilia, che spero per loro che con quel trambusto convertano qualcuno, ma ci credo molto molto poco. A me nauseavano, con trenini e coreografie da inno del CRE sopra un impossibile pout-pourrì di canti sacri e profani. A meno che - certo - dietro i canti profani si nascondesse qualche segreto messaggio subliminale interpretabile in senso cristologico. Tipo oh Susanna non piangere per me, piangi piuttosto sui peccati dei tuoi figli, durante la via Crucis.

Nella foto, alcuni di noi, al tramonto, sul parapetto della piazza di Gubbio, quella dove dovrebbe esserci la stazione dei Carabinieri (stando a don Matteo) e invece c'è un noiosissimo museo.

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16 agoto - Quarto giorno

Partiamo al mattino, dopo la Messa ed una colazione più che degna, dalla Villa Sacro Cuore di Città di Castello; il piede non è migliorato, nella notte, e quindi ho deciso di affrontare tutta la camminata del giorno con i sandali - d'altra parte, stando alla guida ed al buon senso non dovrebbero esserci tratti di sentiero, ma il nostro cammino si consuma tutta tra strade sterrate o asfaltate. Per viottoli e calmi saliscendi, attraversando un "poligono" d'addestramento per cani da caccia - di animali al passo, direi - si giunge fino alla strada provinciale Città di Castello-Pietralunga, che inesorabile si infila dritta come un ago tra i colli, e che seguiamo per alcuni chilometri. Ce ne stacchiamo per salire - ancora, seguendo i segnavia ma contro il parere della guida - sulla destra verso il crinale della collina, circondati da vigneti elettrificati e magra riarsa vegetazione. Giunti al crinale ritroviamo l'asfalto, che seguiamo per innumerevoli saliscendi sempre sotto il pieno sole, non bastando i rari alberi a garantire l'ombra. Qualcuno deve aver utilizzato questo tratto di strada per una gara ciclistica, perché dipinti sull'asfalto ci sono ancora le scritte che misurano il nostro percorso, di cinquecento metri in cinquecento metri, fino al gran premio della montagna che corrisponde con il termine dell'asfalto e l'inizio dello sterrato, che dal punto di vista climatico è ancor peggio perché tutto quel bianco riflette ed abbacina, in modo che il caldo non ci picchi solo in testa ma salga anche dal basso; sembra di stare in un forno, ma in uno di quelli studiati perché il calore si diffonda uniformemente. Finalmente, stando alla guida dopo cinque chilometri di questa tortura, arriviamo in lieve discesa alla Pieve de'Saddi (una chiesina con annesso cimitero, abbandonati e con sorgente disseccata ci avevano fatto un po' temere) dove ci sono acqua ed ombra a volontà, per un parco pranzo, un po' di riposo ed una partita a carte.

Il proseguo è dapprima in discesa, fino a raggiungere la strada asfaltata a fondo valle, e poi in salita, piuttosto dolce, fino allo spartiacque con Pietralunga, che però ci rimane nascosta sulla destra. Ultimo delirante sforzo in salita per raggiungere l'albergo, che si trova in località Candeleto, che - guardando le strutture, direi negli anni Settanta - penso volesse diventare una sorta di comprensorio di villeggiatura affacciato su Pietralunga - ed agli anni Settanta sembra pure che risalgano gli ospiti del nostro albergo -, con campi da tennis, piscina, campeggio ed appunto il nostro albergo dove chi s'è ricordato di mettere nello zaino il costume da bagno si gode una nuotata nella piscina privata. Del resto, la tappa è stata sufficientemente rapida per arrivare in tempo utile, verso le quattro del pomeriggio. In effetti, pare che - a parte gli ideologicamente contrari alla piscina - io sia l'unico ad essersi dimenticato il costume, ma mi consolo con il whisky&soda più economico della storia.

Nella foto, a bordo piscina

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mercoledì 26 agosto 2009

15 agosto - Terzo giorno

Si scende dal Convento dei Cappuccini, un po' dolorosamente per quel fastidioso dolore al piede insorto il giorno prima, - seconda lettura, l'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte - fino alla città, e si attraversa tutta la pianura per vie che tagliano i campi, in alcuni punti a ridosso del muro di cinta della Buitoni. Ad un certo momento, col don, si devia per sentieri lasciando il resto della comitiva a rosolare sull'asfalto, mentre noi lambiano campi di tabacco, percorriamo tratti di quello che ha tutta l'aria di essere un semplice fosso - con tanto di ortiche - ed arriviamo sulle pendici del colle su cui sorge Citerna, nostra tappa intermedia abbastanza in anticipo per evitare la salita dell'inutile poggio che la guida indica e che gli altri, ligi al dovere ed ai segnavia, affrontano.

Il problema della giornata, che sarà poi - in realtà - il problema più grosso dell'intero pellegrinaggio, è che il gruppo di coda, formato da quattro di noi, non sopravvive allo scavalco di questo poggio, che la guida segnala per l'orribile campanile moderno, che certo è moderno ma ho visto di peggio. Dopo averli aspettati, insieme agli altri che a questo punto ci avevano raggiunto dove inizia la salita seria per Citerna, a lungo e telefonicamente contattati, e dopo aver dedotto, stanti le mappe, che tanto più fuori strada di così era impossibile, ed averli indirizzati per Monterchi via strada provinciale, li abbandoniamo un po' al loro destino e risaliamo a Citerna, bel borgo
medioevale - non so se uno dei borghi più belli d'Italia, come recitano i cartelli ad ogni angolo, ma senz'altro merita di farci un salto - presso cui facciamo una prima pausa, ma. Ma, sia per venire incontro a quelli che sono fuori strada, e che dovrebbero giungere non a Citerna, bensì a Monterchi, che per venire incontro al don che vuole vedere la Madonna del Parto, conservata presso il museo di Monterchi stessa, decidiamo che non è Citerna il luogo deputato al nostro pranzo, ma Monterchi, che tanto bisogna semplicemente scendere dalla collina, dal lato opposto rispetto a quello da cui siamo saliti. Io parto un po' prima, perché il piede protesta sempre di più, specie in discesa, e messo sulla cattiva strada da un'indigena imbocco un sentiero, o una traccia di, che attraversa in ripida discesa dapprima il deserto, poi il Getsemani, in cui m'oriento seguendo il letto di un torrente disseccato, fino ad arrivare sul Lago di Tiberiade, che con una certa difficoltà aggiro ritrovandomi poi in pochi minuti a Monterchi, non dove mi aspettavo di arrivare, ma di lusso - per come s'era messa. Devo abbandonare gli scarponi e ripiegare sui sandali. A Monterchi (che, ovviamente, non è in pianura, ma su una piccola collina che va brevemente percorsa fino in cima) pranziamo, sempre in vana attesa delle pecorelle smarrite che, stando a quanto ci riferiscono, sono riuscite a sbagliare ulteriormente ed a dirigersi dalla parte opposta rispetto a Monterchi, una volta trovata la strada "giusta". Ci immettiamo anche noi sull'apparentemente lunghissimo ed apparentemente infinito e non apparentemente, ma veramente torrido nastro d'asfalto che correrebbe dritto fino a Città di Castello, nostra meta, per lasciarlo dopo poche centinaia di metri risalendo un colle (scendendo da Citerna, avremmo comunque dovuto risalirlo, quindi siamo rientrati sul percorso standard) fino alla sommità - l'ultimo tratto è un bello strappo - dove troviamo un agriturismo dal quale quasi non ci lasciano più andar via, tanto sono ospitali ed intenzionati a rimpinzarci. Discendiamo al fondo dall'altro lato e scavalchiamo un altro colle, giungendo a Lerchi. Qui, anche data l'ora, ma soprattutto le nostre condizioni, abbandoniamo ogni velleità di risalire (peraltro inutilmente) all'Eremo del Buon Riposo (che - per come eravamo messi - più facilmente sarebbe divenuto l'Eremo dell'Eterno Riposo), ma seguendo la strada con scorciatoie varie proseguiamo nella piana fino a Città di Castello, che purtroppo va attraversata tutta, in direzione terme, e - non paghi - va lasciata per risalire su un ulteriore poggio, per giungere alla lontana (ma confortevole) Villa Sacro Cuore, dove alloggiamo. Il gruppo dei quattro dispersi, a cui s'è aggiunto Marco che ci avrebbe raggiunto in giornata, durante la tappa, arriva a destinazione - ripescato dai gestori della Villa - poco prima che noi ci si metta a cena. Anche per oggi, missione compiuta.

Nella foto, l'arrivo a Città di Castello, ignari che ci volesse ancora un'ora abbondante di cammino.

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14 agosto - Secondo giorno

Scendendo dall'eremo, in dieci minuti si raggiunge l'inizio della tappa. che ci porta a rialzarci senza troppa fretta tra boschi e pascoli - che, credo per via dei lupi o di chissa cos'altro, qui sono tutti recintati, ed è un continuo apri e chiudi di improvvisati cancelli di filo spinato - tagliando in costa il monte(?) sopra l'eremo stesso, portandosi in poco più di un'ora al Passo di Viamaggio, donde transita la civiltà, e scendendo il quale dalla parte giusta i cartelli ci assicurano si giunge a Rimini. Al bar-ristorante che si trova proprio sulla linea di spartiacque ci fermiamo per una sostanziosa colazione, visto che fino a questo momento siamo andati avanti solo a barrette. Tirato il fiato, partiamo in decisa salita fino alla vetta del Monte Vere, attraversando in modo rocambolesco (visto che ho qualche difficoltà a capirne il meccanismo d'apertura) diversi di quei cancelli di fiolo spinato ed infilando, sempre per bosco, anche tratti assai scivolosi. Terminato il su e giù, che ci regala impagabili scorci su...altri colli, ci si mette su una strada bianca che sarà la nostra lunghissima tortura fino al Pian delle Capanne e oltre, anche a dispetto della guida che ci indirizza per sentieri, mentre cartelli e segnavia ci fanno attraversare greggi di pecore - e qualcuno di noi si cimenta nell'antica occupazione della pastorizia per aprirsi la via - fino alla località (meglio direi: alla fattoria) di Germagnano, dove ci fermiamo per pranzo presso un abbeveratoio che sputa fuori acqua - e questo è un già di per sé un evento - per di più buona. Per scendere dei pochi metri che ci separano da Montagna - disgraziatamente sull'altro lato della valletta del torrente Afra, il percorso della guida ce ne faceva scavalcare le sorgenti - raggiungiamo per erto sentiero il fondo, guadiamo il torrente indirizzati da un misterioso personaggio che i più non ricordano di avere visto e risaliamo in paese, sbucando presso il cimitero, e senza idee della strada che possano aver preso i primi del gruppo, visto che alcuni altri ed io ci eravamo attardati a sistemare gli zaini dopo pranzo.

Con la speranza che i nostri colleghi abbiano preso la via giusta e non si siano lasciati tentare dalla strada asfaltata che comodamente scende a Sansepolcro, nostra meta, parto di gran carriera per la lunga traversata in direzione dell'Eremo di Montecasale, che alterna tratti boscosi e mediamente umidi a riarsi ed assolati passaggi in ambiente precalanchivo (se esiste la parola, e se non esiste si capisce cosa significa); sommato questo fatto al fatto che procedevamo sotto il sole delle due-tre del pomeriggio, si capisce con quanta gratitudine ci siamo attaccati al filo d'acqua pretiosa et utile et humile et casta che sgorgava dalla fontanella presso l'eremo; eremo da cui, causa un paio di errori di valutazione miei che ci hanno fatto perdere nella boscaglia, e passare la voglia di cercare il sentiero vero per scendere a fondovalle, abbiamo raggiunto Sansepolcro in qualche chilometro di strada asfaltata in discesa, che ha messo a dura prova il mio piede destro che ancora mi duole in modo sospetto, ed una volta entrati in paese, ingannati da indicazioni contraddittorie, abbiamo consumato le ultime energie in una sudata e disperata ricerca del Convento in cui, con altri pellegrini, abbiamo alloggiato.

Nella foto, una rara immagine in cui bevo - per la prima ed unica volta del pellegrinaggio - da una bottiglietta di integratori salini. In mano, cosa tutt'altra che rara, una carta dei sentieri.

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lunedì 24 agosto 2009

13 agosto - Primo giorno

Dopo essere arrivati alle 12.00 del giorno 12 al Convento Francescano ed il pomeriggio (ultimo pranzo civile, al ristorante) sulle balze del Monte Penna, messa e vespro solenne (ehi! è il Beato Giovanni da La Verna, c'è il cardinale di Firenze in persona), cena tra noi ed un accenno di stelle - se ne avessi vista qualcuna, sarei stato troppo impegnato a decidere se era davvero una stella per sfruttare il desiderio (la definizione, comunque, è "sassi che bruciano", per amor di poesia), e comunque l'avrei vista in comproprietà, e mi insegnano che le stelle valgono solo se esclusive. Le suore - che sono un po' pasticcione - hanno letti solo per sette, ma un po' la Provvidenza un po' noi che aiutiamo la Provvidenza ci sistemiamo, e più o meno dormiamo.

Il giorno seguente - che è poi quello del titolo, al termine del quale scrivo - partiamo, troppo tardi, per le otto ore segnate sulla guida), ma ben presto ci accorgiamo che - fischi - il tempo di percorrenza segnato è un po' troppo pessimistico. Nel frattempo abbiamo pregato le Lodi e fatta la meditazione del giorno (Perfetta Letizia), ma più che questa sono le prime che mi parlano, con l'inno che invita alla mitezza mentre io - nella prima giornata - ho abbondantemente dato sfogo a tutta l'intrattabilità-Casati, specie con le due o tre adolescenti a noi aggregate - ed ho come l'impressione che il fervorino sia rivolto a me. Per oggi provo a fingere di cambiare, anche se non è semplice.

Comunque, per l'ora di pranzo siamo saliti al punto più alto ed abbondantemente scesi, fino a Pieve S. Stefano, in tempo per giocare con un microgatto e prendere sulla testa un violentissimo temporale, fortunatamente alleggerito dalla disponibilità dei Pievesi che ci hanno prestato un androne. Siamo poi corsi (lungo la strada sterrata e non per il sentiero, visto che con la pioggia non si sa mai) fino all'Ostello Francescano - che l'operaio/extracomunitario/abusivo/serial killer (queste le ipotesi fatte sulla sua identità) ci ha invitato a lasciare e siamo saliti all'Eremo di Cerbaiolo; bellissimo fuori quanto cadente e malsano all'interno, ma l'eremita è ormai anziana e non penso possa correr dietro ad un complesso così grande. Siamo alloggiati in una sorta di Valbonaga abbandonata - io ho anche una singola con tanto di catafalco - ed abbiamo una splendida vista, per quel che vale, sul lago (di cui ho anche letto il nome, comunque è prima di Sansepolcro). Ed ora è quasi ora della Messa e vado a darmi una rinfrescata, e capire come ci regoliamo per cena e colazione, che ho due chili di formaggio sulle spalle.

***

La sera, dopo un magnifico tramonto (sto sprecando aggettivi d'estasi, si vede che è solo il primo giorno), e la cena - spartana - consumata insieme in refettorio, abbiamo incontrato Chiara, l'eremita dell'Eremo - che mio fratello chiama l'Erema, risparmiando una sillaba intera - le abbiamo fatto qualche domanda e l'abbiamo ascoltata. Devo dire che ero - eravamo - un po' tutti perplessi per il tipo di persona che potesse essere ma che, dopo le sue parole, semplici ma profonde - per quanto non sia certo io deputato a dare questo genere di patenti - nonostante alcuni passi sui quali manifesterei riserve più di sensibilità che di contenuto, l'ho senza dubbio rivalutata, convinto dai tanti dettagli che ne rivelavano la fede autentica insieme con l'umiltà e la saggezza.

Nella foto, la combriccola fuori dall'Eremo di Cerbaiolo

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Compagni di cammino

Chiedo scusa se la tiro un po' per le lunghe, prima di riportare il Diario del Cammino, ma in effetti mi è parso necessario dedicare del tempo, delle righe e della banda per menzionare coloro con cui ho condiviso quest'esperienza. So bene che si tratta di un comportamento del tutto inusuale, visto che le mie Cronache sono tutte squisitamente Casati-centriche, ma un conto è fare una settimana di campo con sessanta-settanta adolescenti, un altro conto è camminare per una settimana in sedici, sudare in sedici, sanguinare in un po' meno di sedici ma comunque in tanti, spendere tempo e parole sempre con le stesse persone, che per giocoforza diventano - anche quelle con cui, in condizioni standard, hai meno a che fare - veri e propri compagni di cammino, dove per cammino non s'intende solo mettere un piede davanti all'altro.
Passiamo allora a menzionarli, da sinistra a destra, dall'alto in basso.

  • don Alessandro Dehò, il nostro curato interparrocchiale, che tra le varie manie ha anche quella del cd. "goom" (potrei informarmi e vedere come si scrive davvero, visto che dubito sia scritto così, ma più ne sto alla larga meglio è), che dalle informazioni in mio possesso sembra essere una specie di tortura per scout, cioè cammino in solitudine nel più deserto possibile (per dire, da noi lo fanno in Sicilia, o in Puglia) con il gusto di non avere soldi in tasca, fare la fame, dormire all'addiaccio ed essere maltrattati, per quanto possibile, dai capigruppo. Fortunatamente, le uniche cose che il nostro pellegrinaggio aveva in comune erano la meditazione del mattino ed il caldo torrido - e forse la puzza, ma noi bene o male facevamo la doccia tutti i giorni, il problema erano più che altro zaini e abiti.
  • Enrico, fratello del don, appassionato camminatore ed a propria insaputa massimo fomentatore delle mie invidie, quando su Facebook mette le foto delle sue gite, tra ciaspolate notturne e linea Gotica.
  • Herbert, alias don Acca (per mio fratello) o Eriberto (per me); già presidente dell'UPEE di Bergamo, da quasi due anni adottato dagli OrSI, è in tutta la provincia noto come quello dei CD del CRE o, più di recente, di Granita Mix. Il nomignolo datogli da mio fratello rileva la tendenza degli ex presidenti dell'UPEE di andare in Seminario, ma per ora non se n'è fatto ancora nulla.
  • Maria, laica consacrata che fa servizio durante l'anno nella parrocchia di Negrone e come educatrice dei giovani OrSI. Segni particolari: nessuno l'ha mai vista senza pantaloni lunghi. Nemmeno in piscina.
  • Marco; anche se da qualche tempo ha passato il testimone, nella mia testa rimarrà sempre il presidente del GAP (Gruppo Alpinistico Presolana) di Scanzo. Unitosi a noi durante la tappa Sansepolcro-Città di Castello, si è rivelato ad un tempo preziosissimo per la sua attività di farmacista come paramedico (dopo questi giorni, secondo me si è meritato sul campo la specializzazione in podologia) e impagabile socio, specie delle follie di mio fratello.
  • Chiara, la di lui moglie, che è partita con noi fin dal primo giorno, svolgendo per giunta le funzioni di cuoca per i primi due giorni, quando i pasti erano lasciati alla nostra autogestione. Durante un'appassionata discussione, a tavola, sulle macchine utensili a controllo numerico si è scoperto che le stavamo rovinando le ferie parlandole di lavoro.
  • Sergio, giovane ed educatore degli adolescenti - praticamente ricomparso dopo mesi di latitanza, visto che lavorando non può certo impegnarsi nel CRE, e che quindi non lo si vedeva dai primi di giugno. È tra quanti, durante la terza tappa, hanno smarrito il segnavia ed hanno percorso il più improbabile dei tragitti tra Sansepolcro e Città di Castello, giungendovi distrutti nel corpo e nello spirito.
  • Davide Casati, che come il cognome suggerisce è mio cugino. Nonostante - anzi, secondo me proprio a causa di, visto che sviluppano tanto i muscoli e tanto poco ossa e articolazioni - i lunghi anni di attività calcistica, si è dimostrato (absit iniuria verbis, sono parole sue) "la carretta del gruppo", nel senso che i piedi gli si sono presto rifiutati di camminare nelle scarpe da trekking, o in quelle di ginnastica, o in qualsiasi altra cosa per più di sette ore al giorno, e solo stringendo i denti e con massicce dosi di antidolorifico è riuscito a giungere, ferito ma non piegato, alla fine del cammino.
  • Morgana, che sarebbe la morosa di mio cugino; ormai da quasi due anni. Appartiene alla famiglia Pezzotta di Gavarno (da non confondere con le altre innumerevoli famiglie Pezzotta di Tribulina) che, con quasi tutti i suoi membri, è da sempre una delle più appassionate e presenti famiglie di collaboratori degli OrSI. Specialmente, è nota la madre in quanto cuoca ufficiale dei campi.
  • Francesco Casati, che essendo mio fratello non c'è nulla da dire in proposito, se non fischi. Specialmente per l'attività di buffone del gruppo alacremente svolta, senza requie; emblematico l'autostop per Rimini, quando noi si vagava per l'appennino Tosco-Romagnolo.
  • Paolo, che era uno dei "miei" ormai ex-adolescenti di quinta superiore, l'anno appena trascorso. Come abbia fatto fino al campo di Braies ad ignorare che fosse un maniaco di calcio, e che fosse capace di intavolare discussioni lunghe ore sul mercato dell'Albinoleffe, insieme a mio fratello, resta un mistero.
  • Valentina, la prima in questo elenco di quelle che, senza cattiveria, dopo tipo venti minuti già erano state soprannominate "le bambine", cioè le adolescenti che si erano associate con noi per il cammino. Non esaltantissima come conversatrice, nonostante non sia certo parca di parole, specie di quelle che cominciano con stra. Il mio giudizio inappellabile è "brava". Forse fin troppo. Tipo che l'aspetto al varco, sulla porta di un convento.
  • Irene, che non gliela meno ancora per il fatto di essere una scout solo perché l'ho fatto ininterrottamente per una settimana. "Migliore amica x sempre" della precedente, pare che la presenza di quella sia stata la causa della presenza di questa. Due episodi rimarranno nella memoria: camminare ripassando dal libro di latino, e «Non possiamo tagliare?», domanda di rito rivolta al Portatore delle Mappe ogni mattina, ogni sera, praticamente ogni momento in cui io avessi in mano una carta, cioè sempre.
  • Sara, talmente impegnata a commuoversi, emozionarsi, stupefarsi o comunque altri verbi riflessivi per stancarsi; capace di arrivare per ultima, perché trattenutasi a saccheggiare tutti i cespugli di more trovati lungo il percorso, e «ne abbiamo mangiate un quintale!»; talmente alieni l'uno all'altra da raggiungere il parossismo in dialoghi tipo «Hai visto che bello quel pezzo di sentiero? Il panorama?» «Eravamo a settecento metri, c'erano trentacinque gradi, sentiero esposto a sudovest, niente alberi se non boscaglia riarsa, rocce nere, vulcaniche - un'ora dalla tappa precedente, un'ora e mezza dalla successiva. Cosa c'era di "bellO"?»
  • Luca, che se le cose vanno come credo sarà nel mio gruppo adolescenti da ottobre. Insieme a mio fratello ed a Paolo formavano il terzetto chiamato dei "giovani", a cui venivano riservati i compiti più ingrati, del tipo dormire in tre in un letto matrimoniale - o, come la prima notte, dormire in tre in terra in cucina, per solidarietà a mio fratello che ne aveva sparata un'altra delle sue. Il pusher del gruppo, era in grado di fornire creatina all'intera nazionale di ciclismo kazaka, con quello che aveva nello zaino; in onesta concorrenza con Valentina, che parimenti era stata stipata di "integratori" dal genitore-rambo.

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sabato 22 agosto 2009

Di qui passò Francesco - Giorno 0

Questa introduzione, in effetti, non sarebbe presente nel Diario del Cammino, ma visto che troppo preso dai chilometri di giorno in giorno non vi ho mai speso parole per descrivere cosa si andava a fare e perché, mi sembra opportuno premetterlo.

Di qui passò Francesco, di cui c'è anche un sito internet (che non ho mai consultato, ma óter) è un cammino, pensato per pellegrini a piedi, anche se ce n'è pure una versione per ciclisti, che da La Verna, il crudo sasso intra Tever e Arno presso cui Francesco ricevette le stigmate conduce a Poggio Bustone (RI) passando per Assisi - che poi era la nostra meta, perché non è che s'avessero due settimane, e toccando santuari, eremi e monasteri in diversa misura legati alla vita di Francesco ed all'esperienza francescana. Pur non trattandosi di un trekking for trekking's sake, bisogna riconoscere che molti di noi, io compreso, erano attirati più dal cammino in sé che dall'esperienza di gruppo e spirituale in cui ci s'andava imbarcando. E così, ad esempio, vedevamo come una pessima idea, iniziando il cammino giovedì 13, partire alla volta de La Verna (AR) all'alba di mercoledì 12, perché va bene il viaggio, ma cosa avremmo fatto mezza giornata a girarci i pollici?

Giramento di pollici che poi non c'è stato, perché tra pranzo - al ristorante per chi, come me e mio fratello - ma anche il don ed il suo - non si era portato il pranzo al sacco - oretta di passeggiata, visita, messa, vespro solenne (era la festa del beato Giovanni della Verna, con tanto di cardinale di Firenze a condurre le celebrazioni) e breve introduzione con la prima preghiera di Francesco (perché il filo conduttore del cammino, in luogo dei soliti scritti su Francesco, erano gli scritti di Francesco, e bisogna dire che così riesce molto più simpatico anche a me che non sono mai stato un suo particolare fan), è presto ora di scendere dalle suore che ci ospitano (tipo in quindici dove i posti sono sette, ma sgraffigniamo un po' di materassi extra su cui ci buttiamo) per una cena autogestita, uno sguardo in cerca di stelle cadenti (perché dicono che siano a S. Lorenzo, ma quest'anno è meglio il 12...) che, a mio avviso, si fa prima ad autosuggestionarsi di averle viste che a vederle davvero, una rapida compieta (che non si dice la Compieta, ma solo Compieta) e dormire come viene viene. Perché la tappa dell'indomani è segnata, dalla guida, come lunga otto ore. E la Kompass non fa mappe dell'Alto Tevere Toscano.

Nella foto parte del complesso de La Verna, ripreso dal sentiero che conduce al convento che ci ospitava. Ove non diversamente indicato, tutte le foto sono di mio fratello, al limite opportunamente ritoccate da me

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venerdì 21 agosto 2009

Reduce

E con ieri sera ho finito anche il Cammino di S. Francesco, il pellegrinaggio a piedi tra La Verna, dalle parti di Camaldoli, ed Assisi. Presto seguiranno i resoconti delle tappe, perché - se è pur vero che durante la settimana a Braies non ho tenuto le Cronache del Campo, il Diario del Cammino è stato un appuntamento fisso, e dunque ho le mie brave descrizioni, più che altro lamentele sul sentiero, o la temperatura, o la compagnia. Ma, visto e considerato che sono molte settimane che non aggiorno, avrete d'accontententarvi di queste poche cose. Apraffoco, come si dice talvolta tra noi.

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