E con questo non faccio riferimento al tutt'altro che primaverile clima di questi giorni, che solo stamattina sta dando qualche occhiata di sole; benché sia stato interessante ricondurre l'umido aprile al piove, Governo ladro! o, meglio ancora, come da aneddoto raccontatomi, piove per purgare finalmente l'Italia da Prodi e dal suo fallimentare Governo, o le profondissime riflessioni di ieri sera, piove ancora! Ma dove andrà a prendere tutta quest'acqua?.
Ma al nostro percorso della catechesi per gli adolescenti, che è terminato ieri in bellezza con discussione libera sull'uso e abuso di droga. Non pensiate che da settimana prossima li si lasci a casa...scontati venticinque aprile e primo maggio con la gita a Torino (appello rivolto ai lettori: non andate MAI all'Arsenale della pace!) inizieranno gli incontri di formazione per gli animatori del CRE, o Centro Estivo che dir si voglia (non GrEst perché fa milanese), ci saranno gli animatori della diocesi a fare tutto e la cosa si tradurrà in una sostanziale pacchia per noi catechisti - molti dei quali non verranno più, perché ormai un po' troppo adulti per permettersi di non lavorare tutto luglio.
La discussione sulla droga del mio gruppo, la quarta superiore, è stata per molti versi pacata e composta. Anzi, a tratti avevo l'impressione che si parlasse più per educazione che per trasmettere punti di vista e contenuti. La stessa impressione che mi hanno fatto le testimonianze, per molti versi molto forti, della settimana scorsa. Nonostante sia arcinoto, la cosa più insolita di ieri è stata la suora esterrefatta per le descrizioni di quanta droga circoli, e come circoli, nelle scuole.
Per prima cosa, sgombrerei il campo dall'apocalittico scenario dell'adolescente che viene convinto a farsi un tiro da una canna, ed in capo a cinque anni lo trovi riverso in stazione con ancora la siringa nel braccio. È vero, succede, ma direi che è un fenomeno marginale. Non è qui il problema, almeno per me - e per i nostri ragazzi, che a diciotto anni suonati non hanno bisogno di terrorismo psicologico e, soprattutto, ne hanno viste tante, sia di persona che nelle persone dei loro amici, e sanno che non sempre, non per tutti - anzi, per pochi - il consumo occasionale di droga porta ad imboccare la china per l'autodistruzione.
Non c'è neanche bisogno di lezioni di biochimica molecolare, per spiegare loro come funzionano le varie droghe, e come e perché fanno male. Dicono che viene insegnato loro a scuola, ed in effetti mia madre fa sempre la spola tra le classi per spiegarlo nell'ambito dell'Educazione alla Salute; per le due cose che ci siamo detti ieri, stanno decisamente poco attenti, e sono meno informati di quanto si suppone. Ma non è neanche questo il problema. In fin dei conti, cosa importa loro se la tal sostanza dà dissociazione della personalità e la tal altra edema polmonare? Gli han detto che fanno male, ci credono, bòna.
Il punto è un altro. Che dobbiamo sgombrare il campo da io mi drogavo perché ero timido, per non essere escluso dal gruppo di amici, per sentirmi figo...la mia idea è che siano motivazioni abbastanza fragili. Tant'è che nessuno, né io che ho fatto una scuola molto formativa sotto il punto di vista della droga e della non assunzione, né alcuno di loro, ricorda di aver visto, o essere venuto a conoscenza, di gruppi gruppetti gruppuscoli che emarginano chi non si droga. Piuttosto, ho visto molte ragazze che, partite per quelli alternativi, si sono attaccate al loro seguito e sono, più o meno velocemente, entrate nel giro. Ho anche visto ragazze-coraggio cercare di tirar fuori gli innamorati dalle canne, e tipicamente lasciar perdere; con il tentativo, e con l'innamorato.
Il punto non è, dicevo, nemmeno il relativismo morale di queste giovani disgraziate generazioni; perché, almeno in quanto a droga, non c'è nessuno, se non qualche rarissimo esaltato (nella nostra scuola ce ne saranno stati due, su milletrecento) che - a mio avviso pagato dalle multinazionali della dróga (pronunciata alla bergamasca) - sosteniene le qualità terapeutiche e salubri di questa o quella varietà di canapa. Niente relativismo morale, non un non esiste un bene ed un male, ma un vero e proprio nichilismo etico.
È sbagliato e chissenefrega. Molto più interessante, e preoccupante. Nichilismo a cui non sembra si sia in grado di rispondere.
E, per finire, quoto la suora, sul problema della dipendenza in generale. Che, come uomini, siamo finiti e limitati, non siamo indipendenti né in grado di stare in piedi da soli. E cerchiamo qualcosa da cui dipendere. Che sia una molecola, un ideale, una persona od una Persona, la radice di quello che cerchiamo è sempre la nostra finitudine. Talmente connaturata in noi, da non essere possibile cercare di farne a meno.
3 commenti:
Premetto, sono assolutamente d'accordo con ogni parola del tuo post.
Però, come far sì che il problema della finitudine non venga risolto tramite l' "attaccamento" dell'individuo ad una sostanza chimica, piuttosto che ad una persona o ad un ideale (il più delle volte, un mal ideale)?
Come limitare (distruggere, concordo, non è possibile) questa tendenza non ad essere "deboli", ma più deboli, e quindi di far di se stessi la funzione di qualcosa d'altro?
Credo che il punto fondamentale sia appunto la scelta da parte del ragazzo (o la spinta verso quella scelta da parte dell'educatore) di un qualcosa che lo sostenga, non lo distrugga, ma al contempo non ne diventi una sorta di muro su cui l'edera sa crescere, ma senza il quale non sa sostenersi.
Quindi, indirizzarlo verso un ideale? E se questo ideale fosse buono per noi stessi, ma come ogni cosa non buono in assoluto?
O verso una religione (e perchè mai, una meglio di altre? ) ?
E su se stesso? Ma come far sì che uno possa dirsi di sè ideale e persona a cui ispirarsi, se ancora non si è formato e lo scopo stesso di questo discorso è appunto il formarsi?...
Probabilmente, se sapessi la risposta alle prime domande l'avrei già scritta nel post.
Replico solo alle ultime considerazioni.
La mia, certo, è una visione non solo religiosa, ma cristiana e cattolica della questione. Che, ad esempio, esclude il su se stesso; non per una questione d'età, ma antropologica. E che ritiene più importante, e valido - almeno in linea di principio, per la pratica siamo sempre peccatori - il rapporto con altre persone che questo o quell'ideale.
Ovvio, le mie erano ad ogni modo domande in generale.
Io invece mi baso su una visione per nulla religiosa, nè tantomeno cristiano-cattolica; più che per una mia personale opinione, per la necessità di generalizzare la cosa per ogni individuo, e non solo per chi, possedendo una Fede, ripone la sua finitudine in essa, e ne trova giovamento.
Perchè a questo punto, rebus sic stantibus, se tu parli in veste di "cattolico", e se questo è un discorso prettamente indirizzato a chi una Fede ce l'ha già, non ha proprio senso allora porsi certune domande: la finitudine trova spazio in Essa, e ne è soddisfatta appieno.
Non è forse questo lo scopo e il fine ultimo della Fede?
Il problema resta per chi non l'ha (o non riesce averla): in cosa riporre la propria Natura finita, imperfetta e senza un senso apparente?
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