Non credo di averci mai messo più tempo per leggere un libro. L'ho finito oggi, di ritorno da Milano, e come segnalibro usavo la pagina di un giornale del 13 dicembre 2006. Dio solo sa perché me l'ero messo in cartella, e l'avevo letto (tra l'altro quasi tutto) facendo avanti ed indietro da Milano; poi, credo senza motivo se non la poca voglia di mettermi a tradurre dal latino alla mattina presto, o la sera quando ormai il discorso più serio che si riesce a fare non arriva in fondo senza almeno tre errori di grammatica italiana, l'avevo abbandonato e rimaneva nella tasca anteriore, a condividere lo spazio con le penne di riserva ed i pranzi al sacco.
Ieri mi è ricapitato tra le mani, e senza un vero motivo, tranne forse un viaggio solitario che era qualche settimana che non mi capitava più, ho deciso di mettermi a finirlo. Più si allontana il liceo, meno sono pronto e più ho bisogno delle note per ricostruire la traduzione. E ho sviluppato una sorta di insicurezza, per cui vado a guardarmi anche quello che ho tradotto da solo, anche solo per imparare qualche sfumatura di significato che, credo, non mi servirà mai più nella vita.
Ricordavo non piacermi molto il contenuto del dialogo. Probabilmente, i capitoli più interessanti erano rimasti per ultimi. Capisco bene perché, nell'apparato critico conclusivo, tanto spazio si dà al rapporto tra la concezione dell'amicizia di Cicerone e quella cristiana. In effetti, non ricordo di aver studiato presso nessun altro pensatore antico che l'amicizia, più che una sorta di naturale appetito dell'uomo - animale sociale come lo vuole Aristotele - o una constatazione di convenienza, è il più grande dono fattoci dagli dèi, secondo alla sola sapienza, ed una così profonda sovrapposizione tra amicitia ed amor (amicitia sive amor). Sovrapposizione che mi lascia certo perplesso; soprattutto perché, da un punto di vista per così dire teorico, è ineccepibile. Ma sappiamo come sia enorme la differenza, in pratica.
Pensiamoci.
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