lunedì 22 settembre 2008

Curò in autunnale

Esiste un blasonato legame che lega i fisici alla montagna. Ad esempio, forse non tutti sanno che Enrico Fermi e gli altri ragazzi di via Panisperna erano appassionati di alpinismo. E, anzi, leggo che nell'ambiente accademico di Roma la montagna era tenuta in gran considerazione, e che anche mostri sacri della matematica (Levi-Civita, per dirne uno il cui nome giace sottotraccia alla tesi) condividevano questa passione. Dunque, niente di insolito scoprire che, anche tra noi ben più modesti studenti e laureandi di Milano - Bicocca, la passione è diffusa, ed in più di un'occasione sono i monti a fare da cornice alle nostre "gite sociali". Purtroppo, come al solito, di rinvio in rinvio si arriva a fissare un'escursione come quella di sabato e domenica praticamente all'ultimo fine settimana utile prima della neve (perché ad inizio stagione, quando sarebbe forse più facile organizzare, è più cosa da alpinisti su misto - che da camminatori, per quanto con buona gamba). Ed abbiamo così raggiunto un compromesso scegliendo i due giorni trascorsi, pur cadendo in contemoranea con l'ultima apertura stagionale delle cascate del Serio, e dunque con una folla che invadeva tutto il bacino del Barbellino e Valbondione.

Così, con le persone che, alla fine, sono riuscite ad intervenire - ed eravamo in cinque, tra matematici, fisici e fisici che vogliono passare a matematica - siamo partiti con tutta calma nella mattinata di sabato ed abbiamo raggiunto non Valbondione, bensì Lizzola (dal punto di vista pratico, perché il parcheggio - a differenza di quelli di Valbondione - non ci avrebbe dato problemi, dal punto di vista alpinistico per intraprendere la bella risalita della Val Bondione e la discesa per la Val Cerviera). Iniziando a calcare il sentiero alle undici, ci si inoltra in lieve pendenza nella valle, fino ad incrociare il Sentiero delle Orobie nel tratto Curò-Albani dopo circa un'ora di marcia (sì, probabilmente troverete scritto che ci vuole di più, siamo partiti benino) e si inizia a salire più decisamente tra i rododendri, piegando a destra onde rimontare un gradino e sbucando nella ondulata torbiera che occupa il bacino degli antichi (non so quanto antichi, sulla mia cartina sono ancora segnati) laghi di Sasna, da dove in breve, guidati da un barek (qui per informazioni in merito agli alpeggi della montagna bergamasca) raggiungiamo la baita di Sasna dove - essendo giunta l'ora - ci fermiamo a mangiare.

Alla ripresa dell'escursione, che ormai si svolge in severo ambiente d'alta montagna, inizia a sorgere il problema serio della due giorni, ovvero le ultime ore di vita degli scarponi di uno di noi - si sa come vanno le cose, quando la suola inizia a scollarsi, e si sa che il momento del commiato dalle proprie calzature è ormai inevitabile. Sbuchiamo, dopo qualche tempo, nella piana lunare che si trova alla testata della valle, e che si incunea tra i monti d'intorno, mentre le nuvole attorno alle cime alla nostra destra (cioè quelle sul confine con la Val di Scalve, alla nostra sinistra sono ancora sgombre) decidono di calare e di avvolgerci. Il proprietario degli scarponi sifuli si ferma, mentre ci inoltriamo alla cieca (senza segnavia né omini e sostanzialmente a naso) verso il Lago di Bondione, che troviamo proprio nell'ultimo circo della valle, tenendoci in movimento per non iniziare a sentire seriamente freddo. Riprendiamo a salire, stavolta con molta più pendenza, per guadagnare gli ultimi cento-duecento metri di quota che ci separano dall'incrocio con il sentiero Curò (che unisce l'omonimo rifugio nostra meta con il rifugio Tagliaferri al passo del Venano, quattro ore sopra Schilpario); ma le scarpe si degradano velocemente, ed il passo giocoforza rallenta esponenzialmente. Come non bastasse, siamo sempre più profondamente immersi nelle nuvole e basta rimanere indietro quindici metri per sparire dalla vista. Si sentono anche voci nella nebbia che non dovrebbero essere nostre, ma non incontreremo anima viva (come, del resto, non incontriamo dalla partenza e non troveremo fino all'arrivo). Arriviamo all'incrocio, sotto il passo di Bondione, in quello che non esagero essere per me il posto più suggestivo dell'escursione, sassi sassi ed altri sassi tra le affilate creste che scendono dal Tre Confini, ormai sopra le nuvole. Saliamo gli ultimi metri che ci portano alla crestina che corre sulla destra orografica della Val Cerviera (dunque, guardando da fondovalle verso la testata), con il sole che illumina radente, avanti a noi, i laghetti di Val Cerviera (che raggiungeremmo seguissimo la cresta, ma poi bisognerebbe scende al Curò lungo una non meglio definita "variante" non segnata sulle mie mappe e, soprattutto, a me ignota), ed il Coca in fronte a noi, ed il mare di nubi che si stende sul fondovalle.

Scavalchiamo lo spartiacque e ci abbassiamo rapidamente lungo una traccia innevata (qui ha nevicato in settimana, ed è rimasta una spolverata sui versanti esposti a nord) calandoci nel ghiaione della testata della valle. La Val Cerviera è lunga, e si scende alternadno ampi ed ameni paesaggi ondulati (specie nella parte più alta) a ripidi gradini sui quali il sentiero procede controgradiente, ed il sole cala, ancorché non velocemente senz'altro inesorabilmente, mentre il nostro passo rallenta (il nostro sfortunato collega ormai scende in ciabatte, che hanno più suola degli scarponi) ed io cerco disperatamente di farmi tornare alla memoria tutti i dettagli di questa valle, scesa di corsa saranno ormai minimo due anni, per rassicurare gli altri ma soprattutto me stesso che saremmo arrivati al rifugio senza dover accendere le frontali, e che al rifugio non avrebbero dato via i nostri letti non vedendoci arrivare. La discesa della valle dura due ore, e fortunatamente le nuvole, viste dal di dentro, non erano fitte come quelle dell'altro versante, così ci rendiamo conto quando arriviamo all'imbocco, ad una decina di minuti dal rifugio, sulla comoda mulattiera militare. Alle sette meno un quarto.

Fortunatamente non ci sono stati problemi con i posti letto (una sorta di regolamento dei rifugi dice che, se il prenotante non arriva entro le sei e mezza, il gestore può lasciare il posto ad altri escursionisti), ed abbiamo così preso posto nel rifugio invernale (perché la folla convenuta per l'apertura delle cascate aveva saturato l'estivo, e si stava stretti anche di là), che altro non è se non il vecchio rifugio, con sparante camerate soppalcate. Condividiamo la nostra con due mamme con bambini e (purtroppo) con una compagnia di giovani, chiaramente in totale promiscuità di genere come s'usa nei rifugi. La principale fregatura di stare nell'invernale è dover uscire alle fredde intemperie della sera per raggiungere la sala da pranzo, e soprattutto per sopportare l'incredibile accecante sbalzo termico (accecante, perché appanna gli occhiali che hanno un tempo di recupero più lungo di quello della fotocromia). Mangiamo bene, e beviamo un po' meno - ci consoliamo pensando che sia vino da montanari - e, dopo aver rinunciato a farci servire al tavolo, ci spostiamo nella sala comune per giocare un po' a carte e bere un bicchierino. Tentiamo, con immani sforzi, di insegnare a Chiara la briscola chiamata e quando, dopo un paio di mani fallimentari, rinunciamo decidiamo di andare a letto. Le signore con i bambini non sono andate in camerata da molto, e le troviamo ancora alzate, mentre i nostri compagni "giovani" stanno cantando a squarciagola i cori dell'Atalanta e quelli "da bevuta". Presto, pur con l'inevitabile difficoltà di dormire nel sacco a pelo, ci assopiamo, anche perché sentiamo parecchio nelle gambe la lunga camminata, anche se non fatta a passo di corsa.

Appena preso sonno, sembra che la camera cada a pezzi. La compagnia della Valle Imagna (mentre cantavano a squaricagola chi è nato a febbraio... non siamo riusciti a cogliere da che paese, e come si vedrà il mattino seguente non sarebbero riusciti a rispondere) è stata cacciata a forza dai rifugisti, ed ubriachi fradici e chiassosi cercano di trovare posto ciascuno nel proprio letto, e trovare il telefonino smarrito facendolo suonare all'impazzata. Credo di non aver mai sentito prima di allora una madre bestemmiare, per cercare di zittire l'orda. In quanto a me, sarà che sono addestrato con gli adolescenti intemperanti, sarà che quando sono già a letto deve essere o mio dovere alzarmi o essere tremendo quello che succede, sarà che - a ragione - ho valutato che, quando si cerca di arginare un ubriaco, quello tende a far peggio, fattosta che mi sono girato dall'altra parte sperando che la marea passasse presto; ma non l'ha fatto abbastanza. Ed in più ero ostaggi della mia cuccetta, perché non potevo calarmi (per andare in bagno, ad esempio) in quanto quella sotto di me era occupata da due di loro, che carini. Chiara mi aveva costretto a chiudere l'anta, ché altrimenti ci saremmo svegliati alle quattro (e che ci sarebbe stato di male?), e così sono rimasto ore all'oscurità girandomi nel sacco a pelo, cercando di non appoggiare la testa direttamente sul cuscino, e tentando di indovinare il tempo che passava; finché sono ho realizzato che, sporgendomi, riuscivo a recuperare il telefono, e scoprire così , qualora fossi stato solo, sarei stato in piedi già da tempo. Mi accorgo che Claudio, che dorme di fronte a me, è sveglio, e presto decidiamo, avendo sentito rumoreggiare le signore con i figli, che è ora di levarsi su - abbastanza incuranti dei giovani, che non si capisce perché siano venuti a dormire ed a rumoreggiare quassù, se tanto vogliono vedere le cascate, e quindi devono scendere subito a valle. Beh, subito, quando smaltiranno la sbornia.

Noi, intanto, abbiamo rinunciato al giro in programma, in parte per la questione degli scarponi, in parte per le pessime nuvole basse che preludevano ad una giornata fredda ed umida. Dopo la colazione saliamo, di buon passo più che altro per stare caldi, al Lago Naturale con il rifugio Barbellino, che è ancora immerso nell'oscurità, tra nubi gonfie e la mole imponente del pizzo Strinato, dietro cui si nasconde il sole. Spero sia uscita la foto dell'ombra del pizzo proiettata sullo schermo di nuvole; ci sono cinque gradi scarsi, e ripariamo presto all'interno, dove - avendo definitivamente rinunciato alla briscola chiamata - intavoliamo una partita di Machiavelli; un gioco decisamente troppo anarchico per i miei gusti (io sono devoto alla scopa liscia, per quel che mi riguarda). Ci scaldiamo ciascuno come può (anche usando in modo improprio gli infusi bollenti, e facendo€ onore alla grappa di Paolo) e ci risolviamo a mangiare lì (anche perché l'originale, cioè mangiare all'aperto, è improponibile); dopodiché ci facciamo forza e scendiamo, nelle nuvole sempre più fitte. Non si vede il lago artificale del Barbellino, non si vede il rifugio Curò dal sentiero, scopriamo che l'apertura delle cascate è stata un fallimento, in quanto non si vedevano (e così sta bene a quei giovinastri).

Non è più prestissimo, ed il segnavia dà tre ore fino a Lizzola - tre ore, senza contare il fatto delle ciabatte, ed il sentiero non è un autostrada. La cosa più saggia è che i due che hanno l'auto (io e Claudio) corrano a Lizzola (se abbassassimo i tempi da tre ore a due e mezza sarebbe un affare) mentre gli altri, con tutta calma (normalmente ci vuole un'ora e mezza per raggiungere Valbondione, su una larghissima mulattiera) scendono in paese. Partiamo a gambe levate, scavalchiamo una torma di calmi discesisti, ed in un amen siamo al bivio con il sentiero delle Orobie. Si taglia in piano, su pendii scoscesi, e di quando in quando attraversiamo scarichi di detriti che ci rompono il passo. Come, purtroppo, so bene, la cosa meno sensata per scendere da 1900 metri a 1260 è iniziare a salire, ed ovviamente il sentiero lo fa, ed alterna ripide discese ad incredibili strappi di salita. Arriviamo stravolti (e c'è chi sta molto peggio di me) a Lizzola dopo 1h45'; ed avremmo potuto fare più veloce, se fossimo stati disposti a morire tentandoci. E facciamo bene, arrivando a raccogliere gli altri che sono arrivati da poco più di dieci minuti.

Commiati direttamente a Valbondione, ché le nostre strade si dividono, per comodità. Nonostante la discesa della Valle Seriana sia una delle strade più rischiose, in quanto a traffico, non abbiamo problemi dopo il famigerato semaforo di Colzate - e forse ce ne sarebbe un po' anche all'altezza di Nembro, ma svicoliamo elegantemente per la vecchia strada.

Temo sia finita la stagione dell'escursionismo in alta montagna, a dire il vero con il botto - nel senso, l'ultima è stata la migliore della stagione; e se arrivano le foto (quando le fanno gli altri, l'ottativo è d'obbligo) tutti capiranno il perché.
A meno che il GAP...

Il tragitto dell'escursione su Google Earth.

13 commenti:

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