Dapprima si scende fino al fondo della valle, tra discussioni (se seguire il segnavia o il buon senso) che lo scoprire che le diverse vie si riuniscono poco prima della risalita in Pietralunga sopisce - con il buonumore che sempre caratterizza le prime ore di marcia. Dopo la salita e la brevissima visita nel bel borgo di Pietralunga - visita che serve più che altro a fare la spesa per la giornata - scendiamo in una valle isolata, sul nastro d'asfalto (valle ignota alla nostra guida, che ci faceva fare tutto un altro giro, ma noi seguiamo il segnavia che anche nei giorni precedenti si sono dimostrati più saggi, e ci consoliamo pensando che, nel paio d'anni intercorso tra l'edizione in nostro possesso ed oggi, appunto siano stati razionalizzati alcuni tratti di percorso, già di per sé non brillantemente saggio, visto che predilige lunghi giri altalenanti ai percorsi più diretti) fino ad incrociare la carrareccia che sale al nucleo abitato di San Benedetto Vecchio (dove torniamo ad essere d'accordo con la guida) e brevemente scende al vecchio - chiuso ma apparentemente nuovo di pacca - monastero. Si scende ancora, lungo la strada asfaltata che condurrebbe nella piana egubina, fino all'incrocio tra la strada bianca, indicata sia dalla guida che dai segnavia e che con lungo giro ed insensata salita ci porta a scendere nella valle al di là dei poggi che ci sbarrano la strada, ed il sentiero - che si vede benissimo tagliare come una lama e perpendicolare alla linea di massima pendenza - che ci permetterebbe di scavalcarli, seppure passando per la cima di uno di essi rimanendo comunque a quota complessiva più bassa. La mia stima è che, scavalcando appunto questo Monte Spesce, alto settecento e rotti metri, si risparmierebbe almeno un'ora, ma forse anche un'ora e mezza di cammino, per giunta evitando di superare gli ottocento metri del Poggio del Prato. Il fattore, ma più che altro le sue vacche e - soprattutto - i suoi tori al pascolo ci fanno optare per la strada più lunga, mentre un gruppetto di noi, i più disastrati, decidono di scendere per la strada asfaltata che - si calcola - comunque è facilmente percorribile e fa risparmiare parecchio tempo. Dopo, infatti, che la tappa di ieri ed il primo paio d'ore della tappa odierna si erano svolte senza la "copertura" di una carta diversa da quella, abbastanza limitata, riportata sulla guida, siamo finalmente entrati nella zona coperta dalla Kompass Gubbio-Fabriano, e quindi sappiamo valutare con precisione eventuali percorsi alternativi.
Ci aspettava una lunga risalita su una delle consuete abbacinanti strade bianche, tra vecchi cascinali in avanzato stato d'abbandono, fino ad una bella pineta sommitale ed una ripidissima - ai limiti dello spaccagambe discesa che ci riporta su una strada asfaltata - dall'altro lato del famoso Monte Spesce. Lunga e riarsa traversata, tra saliscendi e senza un goccio d'acqua - da Pietralunga, neanche una stilla - fino alla Madonna dei Montecchi, dove invece di acqua ce n'è parecchia, ed anche ottima - almeno per gli standard dell'acqua umbra. Eccetto il don, che dapprima per un malinteso è corso avanti (pensando aver io tagliato per sentieri che in effetti avevo indicato, ma che mr. Gap aveva sconsigliato) e poi ha deciso di proseguire fino a raggiungere quanti scendevano per strada, attendo gli altri in modo che ci si fermi insieme a pranzare. Sollecitati da un violento temporale che si gonfiava alle nostre spalle ripartiamo fino ad arrivare alla frazione di Loreto, appena in tempo prima che si scateni l'Apocalisse, da cui ci ripariamo rifugiandoci - grazie al sacrista - nella bella chiesa, dove ci fermiamo per un'oretta in attesa che passino grandine, acqua e fulmini (visto che pochi si fidano della possibilità di costruire una gabbia di Faraday unendo i bastoncini telescopici).
Non ci pentiamo di aver perso un'ora perché il temporale ha - fortunatamente - rinfrescato l'aria e l'ambiente, e quindi scendiamo rilassati (io ho rimesso gli scarponi, temendo più l'umidità del dolore, e del resto i sandali favoriscono le vesciche, che infatti dopo quasi tre giorni di tali calzature si sono formate) dapprima a Monteleto, indi nel bel mezzo della piana di Gubbio, che ancora non si vede nascosta da un cementificio. Attraversiamo questa piana noiosa per qualche chilometro, prima che la città ci si stagli dinanzi, e con la città la prima gelateria del Pellegrinaggio, e con la prima gelateria le strette stradine per cui s'ha da inerpicarsi fino a giungere, abbastanza stremati, al convento delle Domenicane dove siamo ospitati. In effetti, ne valeva la pena, del tramonto a Gubbio. E della serata, giacché si cena in un buon ristorante e si passeggia per le vie, fin troppo animate per via della Missione Giovani dei Frati Minori di Sicilia, che spero per loro che con quel trambusto convertano qualcuno, ma ci credo molto molto poco. A me nauseavano, con trenini e coreografie da inno del CRE sopra un impossibile pout-pourrì di canti sacri e profani. A meno che - certo - dietro i canti profani si nascondesse qualche segreto messaggio subliminale interpretabile in senso cristologico. Tipo oh Susanna non piangere per me, piangi piuttosto sui peccati dei tuoi figli, durante la via Crucis.
Nella foto, alcuni di noi, al tramonto, sul parapetto della piazza di Gubbio, quella dove dovrebbe esserci la stazione dei Carabinieri (stando a don Matteo) e invece c'è un noiosissimo museo.
1 commento:
Io quando inizia anche solo a venir su un'arietta che indichi l'approssimarsi di un bel temporale preparo sempre una gabbia di Faraday. Non c'è escursione, tra l'altro, in cui io non abbia nell zaino una cinquantina di bastoncini telescopici.
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