Tocco un argomento delicato, uno dei punti chiavi del politically correct che - credo ormai dai primi anni delle elementrari - viene insegnato, inculcato, ficcato nel cervello di tutti noi contribuendo a realizzare quella piattaforma comune di idee scontate (e spesso sbagliate) che regge la nostra società. Se fossi un po' più "futurista", indirei una crociata contro questi concetti. Che uno li possa valutare sbagliati o corretti, questo loro venir veicolati senza discussione - un po' come, ma mi andrei ad impantanare in discussioni peggiori, il concetto di "diritti universali", lezione di studi sociali talmente odiata da ricordarla ancora a distanza di dieci anni - li rende dei fastidiosi dogmi laici, che mi ricordano la fede nell'immortalità dell'anima in Utopia di T. Moro:
non c'interessa quale sia la tua fede, purché credi nell'immortalità dell'anima. Altrimenti sei pericoloso per la società.
Affronto, tra i tanti - perché me ne offrono sponda alcuni commenti al film di ieri visto al gruppo AdOrSI - il tema del giudizio e del pregiudizio.
Per prima cosa, un breve cenno a quello che la nostra "radiazione di fondo" morale scrive: non giudicare per non essere giudicato (per quanto sia blasfemo chiamare radiazione di fondo un passo evangelico) ma, soprattutto, non avere pregiudizi.
Andiamo a Kant, alla sua Critica del Giudizio che credo sia, dei suoi scritti, quello di cui più condivido i contenuti. Non c'è bisogno di entrare nei dettagli. L'esercizio del giudizio, del dire "bello" o "brutto" è una delle caratteristiche dell'uomo (oltre alla Ragione ed all'Etica), da esse indipendente - entro certi termini. Anche se da Aristotele in poi è invalsa la definizione di uomo come "animale razionale", io non credo che fosse appropriata allora più di quanto non lo sia adesso. E la bestialità, l'insensatezza, la stupidità conclamata di tante azioni umane fanno venire seri dubbi sul fatto che sia la Ragione a dare ragione della natura dell'uomo. Il vivere morale, forse? Non c'è neanche bisogno di argomentarlo: no. Ecco, io credo che la natura umana si realizzi nella facoltà del Giudizio: di misurare il mondo su di sé, e sé stessi sul mondo. Di conoscere le proprie preferenze. Sia che abbiamo un ritorno (preferisco la carne al sangue di quella ben cotta --> ritorno dai sensi) che non lo abbiano (preferisco Frescobaldi a Bach ---> ? bene... - preferenza palesemente inutile).
Forse esagerando, direi che il giudizio è il modo con cui noi uomini troviamo il nostro posto nel mondo, viviamo le nostre vite, prendiamo decisioni, ci voltiamo indietro e valutiamo se abbiamo rimorsi o rimpianti. È difficile chiederci di non giudicare quello che ci circonda, gli altri, anche i nostri amici. Siamo portati a farlo. E sappiamo benissimo che gli altri fanno altrettanto. Non possiamo comminare condanne, a differenza del Giudice, ma giudichiamo qualsiasi cosa su cui si posa il nostro sguardo. Abbiamo bisogno (e questo è il punto su cui verte il ragionamento) di giudicare.
Per questo rifiuto il rifiuto dei pregiudizi. E' quello che non mi ricordo chi chiamava la "precomprensione atematica" del nostro mondo. L'autore si riferiva ad una precomprensione della ragione, prima di "mettere a fuoco" nelle categorie i contenuti della percezione. Mutatis mutandis, questo dovrebbe essere il ruolo dei pregiudizi nei confronti del giudizio. Incasellare quello che ci circonda, prima di analizzarlo bene, ma in modo che ci sia comunque d'aiuto per fare quello che dobbiamo.
Non è certo detto che questi pregiudizi non vengano smentiti, dopo un'analisi della loro materia. Ma analizzare una materia senza averla "pre-analizzata" è un compito improbo, e non lo facciamo mai. Esempio concreto: come scegliere l'università. Nessuno la sceglie conoscendola, perché se la conoscesse l'avrebbe già frequentata, ed avrebbe già finito. Ci si accontenta di sceglierla dall'impressione. Poi qualcuno cambia idea. Ma la maggior parte l'hanno "pregiudicata" bene. E noi vorremmo imporci di non dare pregiudizi?
3 commenti:
Per me ci sono due modi di giudicare. Uno è valutare razionalmente una condizione (come l'università, l'automobile, il film per la serata) in base alle nostre esigenze e a come ci conosciamo. Questa è una scelta oggettiva.
Il problema del giudizio è quando noi anziché giudicare le cose fatte per noi, giudichiamo chi le fa.
Noi (i cristiani, gli altri facciano quello che vogliano che tanto non li capisco, ma qui si apre una parentesi troppo lunga) non possiamo giudicare per il semplice fatto che non possiamo comprendere tutte le variabili che hanno portato l'agente all'azione. Sia nei metodi che negli scopi.
Ma non possiamo fare a meno di dare giudizi di valore su quello che ci circonda, sulle persone o le loro azioni. Perché altrimenti ci troveremmo persi in una nebbia indistinta di indifferenza. E questi giudizi dobbiamo darli giocoforza soltanto alla luce di quello che conosciamo noi.
Il nostro giudizio non corrisponderà, non corrisponde, alla verità - né possiamo permetterci, una volta giudicato, di condannare (perché giudichiamo, per così dire, senza prove). E, in effetti, stabilire il premio o la pena spetta ad un Altro. Ma non riesco ad accettare che noi si debba sospendere il giudizio.
"Chi ha il cuore vuoto ha la bocca che trabocca" diceva Karl Kraus, a volte è meglio sospendere il giudizio per umiltà. Si sa che le parole ex cattedra sono foraggio pregiato per parecchie persone, stando a quello detto dal pontefice nell'ultima enciclica io non avrei una morale perché ateo. Una morale si può basare anche sull'immanente e non sull'assoluto, e non è di certo un qualcosa inevitabilmente edonistico né una via facile.
A volte sospendere il giudizio e riflettere anche prima di pensare evita di riempersi la testa di cazzate. Io non credo nell'immortalità dell'anima e giudico chi ci crede per ciò che è e che fa, mi aspetto reciprocità di giudizio, e nella modalità e nelle forme.
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