Riporto (una versione lessicalmente corretta e sintatticamente riordinata de) la riflessione che ieri sera ho proposto al gruppo adolescenti di quinta superiore degli Oratori di Scanzorosciate. Soprattutto perché è la prima volta che affronto da solo il gruppo, in quanto il curato cui di solito assisto era impegnato con i giovani.
Il brano evangelico su cui è stata costruita la riflessione è, come di costume quaresimale, Il Vangelo di Domenica, cioè la seconda parte del dialogo tra Gesù e Nicodemo.
Alla riflessione degli adolescenti è anche stato proposto il misterioso ed affascinante testo della lotta tra Giacobbe e Dio (Gn 32,23-33) e l'episodio dei serpenti velenosi nel deserto richiamato da Gesù stesso (Nm 21,5-9).
Nicodemo è un uomo colto, saggio, religioso. Capo di quei farisei - Giovanni usa, genericamente, Giudei - che già, dopo il difficile episodio della cacciata dal tempio, che Giovanni racconta poche righe prima, hanno in cuor loro di ucciderlo (Mc 11,15-18), esce di notte per confrontarsi con Gesù. Per discutere con lui; e non è una discussione facile. Il dettato spezzato del brano di Giovanni ci dipinge una vera e propria diatriba, un lungo confronto in cui si scontano incomprensioni e Gesù pone Nicodemo davanti alla verità poco per volta. Una lotta, come quella di Giacobbe con l'uomo/l'angelo/Dio raccontata in Genesi. Dio ha appena promesso a Giacobbe terra e pace tra lui ed il fratello Esaù, ma poco prima di attraversare il torrente Giacobbe viene fermato. Questo Dio incomprensibile, che sembra non lasciar realizzare ciò che promette (ci ricordiamo del Sacrifico di Isacco?), contro cui titanicamente cerchiamo di batterci e che non riusciamo a vincere. Non ci sono scappatoie. Le "cose terrestri", che pure Nicodemo e noi con lui fatichiamo a capire (nella prima parte del racconto di Nicodemo) sono le scintille di verità cui gli uomini, dal basso, riescono ad accedere. Si tratta dell'Alleanza (figurata dalle nozze di Cana), del Tempio, dei Profeti (i primi due momenti sono presentati nel capitolo precedente) e dello Spirito che soffia e fa rinascere dall'alto (confronta il brano magnificamente icastico e barocco di Ezechiele). In questo passo Gesù fa un salto radicale. Non si tratta più di "cose terrestri", ma di "cose celesti" (chi se non chi è sceso dal cielo ha visto il Padre?). "Cose celesti" che interrogano il problema radicale dell'uomo, quel Male, quella morte che ci tiene da Adamo ed in Adamo e contro cui, spesso cerchiamo di opporci con le nostre forze salvo poi prendercela con Dio se non ci riusciamo (Andrea P.). E sotto i riflettori finiamo noi, Popolo di Dio che perennemente vaghiamo nel deserto mormorando contro di lui, affamati ed esposti alle insidie; ad insidie contro cui non abbiamo soluzione. Soluzione se non quella di levare lo sguardo verso Colui che è innalzato. Per sopravvivere, non funziona concentrarsi sulla propria sopravvivenza tenendo lo sguardo in basso cercando di evitare i serpenti, ma guardando in alto. Guardando Dio che, in Gesù, non cancella il male - non accusiamo noi forse Dio perché non cancella il male dal mondo? - ma lo assume su di sé con tutto il suo obbrobrio. L'espressione agnello di Dio e l'infelice traduzione italiana di qui tollis peccata mundi ci allontanano dal senso originario di capro espiatorio che porta su di sé i peccati del mondo; è nell'assumere la più negativa delle condizioni umane, la morte, che Dio salva il mondo, ripurificando con il suo amore quello che con la nostra libertà abbiamo insozzato.
Il Figlio dell'Uomo non è venuto a giudicare il mondo, perché il giudizio di condanna è già l'incredulità di chi non accoglie la Luce. È l'indisponibilità a farsi incontrare dalla Luce ed a farsi amare (perché amare non è facile, ma farsi amare è tremendo), è la diffidenza ed il cadere nel peccato di Adamo ed Eva, che si sono fatti ingannare a credere che Dio sia contro l'uomo e la sua elevazione - come diceva il serpente - la condanna e l'inferno già in vita. Venire alla Luce, rinascere dall'alto, è quello che Gesù ci offre; è rinascere in Lui.
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