Terza puntata del racconto di Pasqua. Puntata n. 2
3. Non considerò un tesoro geloso
Non era fato che Iaphet partecipasse al banchetto degli Inferi, quel giorno. La Morte l’aveva rassicurato, era vero, e non si può non avere fede nella primogenita dell’Inferno. D’altra parte, l’ordinaria amministrazione era sempre lasciata a manodopera mai troppo specializzata, ed affidabile con alterne fortune.
Passando per l’ufficio a lasciare il soprabito, infatti, si trovò sulla scrivania il rapporto dell’evasione di poche ore prima. Una versione preliminare, era stato appuntato a mano dalla segretaria, prima che eventuali errori diventassero una scusa per convocarne l’autore, ed impedire a metà ufficio di andare a godersi la festa.
Secondo l’estensore del rapporto, il poveraccio a cui era toccato essere reperibile forse nel più grande giorno di festa della storia, le cause dell’evasione permanevano ignote; e, del resto, la Morte tende a non rilasciare dichiarazioni. Della gran folla di evasi, i più erano stati ricondotti al loro posto; altri erano rimasti vivi – almeno per un po’ lo sarebbero stati, tanto poi tutti tornano; ma erano stati identificati, almeno, e dunque non c’erano problemi.
Iaphet chiuse la cartellina, pronto ad alzarsi per raggiungere la famosa festa. Tutto sotto controllo.
Sennonché un paio di colpi timidi alla porta annunciarono una visita improvvisa. La segretaria se ne doveva essere già andata, per non avergli annunciato lo scocciatore o – meglio – non avergli impedito di arrivare al suo ufficio. Da come entrò nella stanza, Iaphet pensò che i colpi non erano stati timidi, ma sospettosi. Il tale che aveva di fronte aveva guardato fuori dalla porta due volte, prima di chiudersela alle spalle senza far rumore; mentre Iaphet lo osservava, al tempo stesso perplesso e scocciato.
«Eccellenza, permettete che mi presenti», esordì quello, inutilmente cerimonioso, dopo essersi infilato come un ladro in un ufficio altrui.
«Ci mancherebbe altro», lo fulminò Iaphet. «E faccia presto»
«Sono un funzionario dell’Ispettorato Centrale, assegnato alla Giudea negli ultimi quarant’anni».
«Immagino, dunque, che sia superfluo chiederle la tessera di riconoscimento», commentò Iaphet subodorando grane. L’Ispettorato Centrale era un organismo dai contorni quasi mitici – nessuno dei quadri era mai messo a parte della sua esistenza, per dire, e nemmeno lui, il sovrintendente di Giudea, aveva accesso agli uomini che lavoravano nel suo settore – e quell’omino in grisaglia, tanto sottile da sembrare evanescente, non poteva che essere apparso con cattive notizie.
«Immaginate bene».
«Grazie. Qual è il problema?»
«Vedete…nonostante i miei superiori tendano a voler far finta di niente, penso che dopo il Sabato, quando tutti torneranno al proprio posto di lavoro, troveranno una sorpresa che non sarà per niente gradita»
«Il Nemico è in mano nostra. Che potrà mai succedere?»
«A parte il fatto, Vostra Eccellenza, che non è ancora effettivamente in mano nostra – ci vorrà qualche ora, è ben scortato ma si sa mai – vorrei portare alla vostra attenzione la vicenda del nostro amico Iscariota».
«Bel lavoro, vero? Non è stato facile, ma abbiamo comunque qualche freccia al nostro arco»
«Vedete, è andato a impiccarsi»
«Ci sta. Morto?»
«Bella domanda. Presumo di sì, ma è Segreto di Stato. Tutto fatto sparire»
«Il Principe lo vorrà tutto per sé – è in lizza per il premio di Miglior Peccatore di Tutti i Tempi e, diciamocelo, non c’è gara»
«Forse, Eccellenza. Difficile sapere cosa passa per la testa ad un suicida: caso non voglia si fosse pentito»
Iaphet fece un gesto nervoso con la mano come per scacciare la brutta idea che gli veniva prospettata. «Importa poco, al limite non vince. L’importante è che si ritrovi qui – che noi lo si sappia o meno – nel nostro eterno abbraccio. Come tutti.»
L’agente dell’Ispettorato Centrale si irrigidì sulla sedia, come trattenesse qualche parola che stava per dire, ma non voleva. O, forse, era solo una posa, perché Iaphet, insospettito, replicasse:
«Come tutti».
«Vedete, Eccellenza…come vi dicevo – e credetemi, non l’ho ancora riferito a nessuno – c’è un problema grave al Movimento Anime»
«La famosa cosa di cui tutti s’accorgeranno tornando in ufficio? Si sbrighi, che perdo la festa»
«Da qualche ora il ritmo degli arrivi è calato drasticamente»
«Sono cose che vanno e vengono, e bisogna guardare il saldo non più spesso di una volta al mese. Tanta apprensione per nulla, si fidi», tagliò corto Iaphet, ignorando le proteste dell’agente che parlava di un crollo generalizzato degli arrivi, impossibile da ricondurre a fattori statistici.
«Allora mi dica lei. Se non vengono qui, dove vanno?»
«Ammesso che qualcuno lo sappia, è secretato».
«Vede? Niente da dire», e lo congedò. Ma il colloquio gli aveva fatto passare la voglia di tornare alla festa, sebbene l’avesse usata come scusa per allontanare l’agente. Impossibile, a quell’ora tarda, procurarsi dei rapporti sul movimento anime; ammesso e non concesso qualcuno non fosse alla festa, o anche la festa non ci fosse stata, nessuno avrebbe lavorato fino a così tardi. Dunque, sulle prime, aveva concluso che fosse inutile avvelenarsi il sangue per una cosa impossibile da verificare fino all’indomani mattina, quanto meno.
Poi, però, gli venne un’idea. Se si fosse spinto fino alle Porte dell’Inferno, là dove attraccano le anime dei morti, un paio di domande agli scaricatori ed ai mozzi avrebbero potuto chiarirgli la situazione – se era tanto grave, come gli aveva detto quello. Buttandosi addosso un vecchio impermeabile sformato, per cercare di coprire l’abito confacente al proprio rango, salì allora fino alle estreme propaggini del Tartaro, alla città murata ed al porto. Dal lago, coperto di nebbie, giungevano continuamente i barconi delle anime; come apparizioni dal muro di latte, apparivano silenziosi e, mentre s’accostavano alla riva, s’iniziava ad udire il lamento rassegnato dei morti. Venivano sbarcati, messi in fila, schedati, e fatti passare sotto le Porte Eterne. Molti sgherri e qualche funzionario – mandato così in alto per punizione, o incompetenza – li indirizzavano al loro settore, questi scendevano per sentieri e strade, e le banchine del porto erano pronte per un nuovo carico.
Invece, Iaphet trovò la città invasa dalla folla. La festa si era trasferita, per dare il benvenuto al Nemico – un benvenuto non particolarmente caloroso, come era da aspettarsi.
Lo sforzo maggiore per Iaphet fu, avvicinandosi al porto, tenersi alla larga dai volti dei conoscenti. Fortunatamente non erano tanti, in proporzione alla folla oceanica, ma bastavano per rendere difficilissimo un percorso già reso arduo dalla folla che si spingeva, le persone che si addossavano le une alle altre, calici che si levavano e grida e tumulti. Un imponente servizio d’ordine teneva sgombra la strada principale della città, per evitare che la folla bloccasse il traffico ordinario. Iaphet riuscì a raggiungere gli spalti delle mura, dove i più si erano radunati per cercare di individuare, dalla nebbia, il barcone su cui sarebbe arrivato il Nemico. La banchina del porto, al confronto, sebbene percorsa dagli operai e presidiata dai funzionari addetti, sembrava deserta: anche perché nessuno, una volta passate le mura, poteva uscire, e dunque la folla si premeva sulle mura ma non uno ardiva allungare anche solo un braccio verso l’esterno.
Nel frattempo, altri barconi arrivavano. Erano anni che Iaphet non assisteva ad uno sbarco, ed effettivamente qualche cosa che non tornava c’era. Aveva vaghi ricordi di anime ammassate su tutti i ponti, di barconi che talvolta quasi affondavano, stipati com’erano, ed invece quanti arrivavano in quel momento erano comodi, ed anzi si potevano distinguere dei posti a sedere liberi. Ma forse avevano soltanto ammodernato la flotta, o aumentato la frequenza dei viaggi.
E fu in quel momento, mentre cercava – invano – di attirare l’attenzione di un funzionario che si muoveva a scatti tra le file dei nuovi arrivati, brandendo una cartellina come una mazza ferrata, che si sentirono i due rumori. Per prima la folla, che esplose in grida che rivaleggiavano con quelle che, a svariati livelli di distanza, avevano accompagnato la morte del Nemico. E poi, terribile e stridente, le Porte della città che sbatterono, e si chiusero.
Inutili gli sforzi, anche di cinquanta persone alla volta, di smuoverle e riaprirle; le file di morti si allungavano al porto, i funzionari sbraitavano, gli ufficiali imprecavano all’indirizzo dei soldati chini sulle funi e sui cardini delle colossali porte di bronzo. Il Nemico, intanto, aveva toccato terra.
Sugli spalti si aprì come un vuoto e, circondato dalla sua corte, il Principe si affacciò. Ordinò di aprire le porte. Le porte non si aprirono. Ordinò di nuovo.
L’Inferno rispose.
Come nessuno si sarebbe aspettato.
«Lungi da me, Signore!»
Pochi saprebbero descrivere il volto, repentinamente paonazzo e livido, del Principe a quelle parole.
«Fallo entrare, ché è in potere nostro»
L’Inferno rispondeva da ogni pietra e da ogni angolo «Con Lui entra la nostra rovina, e non lascerà pietra su pietra di questo luogo eterno»
«Abbiamo tutti sentito quanto temeva la Morte! E come il Sommo Nemico lo abbandonò sulla croce. Fu duro domarlo, ma ora Tu lo ingoierai e non più vedrà la luce»
«Ma con la sola parola mi strappò di bocca le prede, e dalle catene della mia figlia. Siete ingannato, Duce dei Mali!»
«Io stesso lo presi e lo consegnai perché fosse ucciso, né riuscì a scendere dalla croce. Accoglilo, come accogli tutti gli uomini mortali. E Figlio dell’Uomo chiamava sé stesso»
«Mi ha strappato Lazzaro pochi giorni or sono. Voi lo credete vinto, ma vien qui per vuotarmi!»
«Non voglio sentire altre Tue parole, pavida caverna! E Voi, schiere infernali, spalancate i cancelli!»
Ma per quante centinaia di diavoli si sforzarono, e spaccarono le ossa, per smuovere le porte di bronzo, non fu possibile spostarle di un solo dito. Il Principe, furibondo, lanciava ordini e maledizioni contro l’Inferno, che taceva ad ogni richiamo.
Finché una voce grande come un tuono, dall’alto, ordinò «Apritevi, o Porte Eterne! Avanzi il Re della Gloria!». Al che il Principe, non sapendo donde venisse la voce, ma trovandosi d’accordo (a parte per quella questione del Re della Gloria), ordinò a propria volta all’Inferno di aprirsi. Ma l’Inferno resisteva. La voce ripeté il proprio ordine, e l’Inferno chiese, allora:
«Chi è il Re della Gloria, che non lo conosco?»
E la Voce rispose: «Un Signore forte e potente, un Signore potente in guerra!». E, a quelle parole, le porte di bronzo, esistite fin dall’inizio del tempo, si fecero polvere, mentre l’arco della porta crollava fragorosamente, travolgendo tutti quelli che si erano affannati a cercare di aprirle, fino a pochi istanti prima.
E il Nemico si fece avanti, ed entrò nel regno delle ombre. Guardò con mitezza verso l’altro, incrociando lo sguardo di Iaphet e trovando gli occhi, divorati dalla febbre e dall’ira, del Principe.
«Non mi inviti a cena?»
La frase si perse tra le vie, diffondendosi insieme al mormorio di incredulità di tutti. Il Principe stesso non sapeva che rispondere. Il Nemico, bisognava dirlo, era sportivo; né lui poteva essere da meno.
«Sei mio gradito ospite. Per l’eternità».
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