domenica 24 aprile 2011

Ad Inferos - Il Signore della vita era morto


Quarta (ed ultima) puntata del racconto di Pasqua. La puntata precedente.


Le squadre di operai si erano buttate sulle macerie delle Porte come formiche, sgombrando il passaggio e predisponendo un ingresso di fortuna, per le anime che affollavano il porto. Molti soldati presidiavano il porto e la città, per impedire a chi già aveva varcato l’ingresso di uscire, ora che la porta era crollata. Non andavano troppo per il sottile, e non avevano voluto sentire ragioni da parte di Iaphet, che voleva parlare con i funzionari del porto ma che – nonostante il rango – teoricamente non poteva uscire dalle mura. Anche praticamente, grazie alle misure di sicurezza rafforzate.

Si avviò pensoso al proprio ufficio. Forse il Movimento Anime dell’ultima mezza giornata sarebbe stato sufficiente a chiarire se c’era o meno un tracollo degli arrivi – anche fatta la tara alla dispersione statistica. Forse, avrebbe potuto convocare d’urgenza –anche se non erano, a rigore, a sua disposizione – qualcuno dei funzionari del porto, non appena avesse finito il turno. Forse, avrebbe potuto mandare un memo all’Ispettorato Centrale – ché quasi sicuramente era affar loro, e non di altri – che facesse venire qualche dubbio a chi di dovere, in modo che quell’agente con cui aveva parlato fosse preso maggiormente sul serio.

Il cercapersone aveva preso a suonare, intanto. All’altro capo della comunicazione, dalla segreteria particolare del Principe lo si invitava al banchetto, ospite d’onore il Nemico, che stava per essere servito nell’Aula delle Feste.

«La vostra assenza sarà vista come un’offesa personale, pochi hanno più titolo di voi a sedere al tavolo dei dignitari».

Iaphet non riusciva a vedere la sconfitta del Nemico come una propria vittoria. Diciamo, fin dall’inizio sarebbe dovuta finire così, da quando il Sommo Nemico scelse di prediligere così tanto quel figlio (…se non è nepotismo questo…) e di snobbare i più insigni tra i suoi ministri. Certo, a vederlo con l’abito da cerimonia ed ascoltando gli elogi pubblici che tutti i commensali gli tributavano, anche un funzionario schivo e grigio come lui si inorgogliva: seduto alla sinistra del Principe – alla destra sedeva il Nemico, era l’ospite d’onore ed il galateo prima di tutto – e di fronte alla graziosissima Morte, per cui aveva una vera e propria venerazione. Non era tipo da feste, ma poteva abituarsi.

Sennonché, mentre il banchetto proseguiva – e s’era fatta notte, di fuori – la Morte sembrava far sempre più fatica a stare a tavola. Era impallidita, si agitava sulla sedia.

«Signora, state bene?»

«Questi giorni mi hanno stancata molto. Credo tornerò nelle mie aule», ed a poco valsero le preghiere degli ospiti e del Principe: la Morte è Padrona.

Passavano le ore, le portate si susseguivano – nessuno è mai sazio, negli Inferi – e continuavano ad essere versati abbondanti calici di liquore nero, amaro e fortissimo, che è la sola bevanda alcolica che si distilla e si consuma sotto le volte di pietra.

Finché il Nemico si alzò, levò il calice, e fece per prendere la parola. Il Principe, ormai alticcio, con un sorriso ed un cenno gliela concesse. Poteva animare la festa, un ultimo discorso del Nemico sconfitto. Anche questi non s’era tirato indietro, durante il banchetto – e del resto, l’abitudine ai festeggiamenti l’aveva anche da vivo, al punto da essere stata usata contro di lui, per ispirazione di Iaphet – e reggeva il calice con mano malferma.

«L’ospitalità in queste stanze è straordinaria, non credo ci si riuscirà mai a fare l’abitudine…»

Mormorando, i commensali commentavano divertiti «Porta pazienza…»

«…ma mancherei di rispetto per il nostro ospite se non mettessi in luce un problema che non ho potuto fare a meno di notare.»

I mormorii da divertiti si fecero infastiditi: nessuno avrebbe mai osato criticare il Principe, e nessuno lo poteva fare in sua presenza, alla tavola che egli aveva predisposto. Il Principe stesso si era riscosso e risollevato sul suo Trono, spegnendosi in volto il sorriso e fissando il Nemico con irritazione.

«Non è una festa, se non c’è vino»

Il coppiere si avvicinò sollecito, facendo notare col massimo tatto al Nemico che il frutto della vite non cresce negli Inferi, e che dunque non c’è vino.

«Capisco, e vi ringrazio. Ma non posso approfittare più a lungo della vostra ospitalità».

Non aveva finito la frase, che l’Aula risuonò di almeno trenta cercapersone impazziti. Il Principe mandava sguardi a destra e a sinistra, mentre i suoi ospiti toglievano di tasca gli aggeggi, leggevano le poche righe e si alzavano in fretta, cercando un telefono o correndo ai propri uffici. Anche il cercapersone di Iaphet prese a suonare impazzito, allarme generale. Impossibile chiamare in ufficio col telefono portatile – un privilegio degli alti funzionari – perché le linee erano intasate.

Allora, con un mezzo inchino al Principe, raccolse la giacca e prese l’uscita più vicina, facendosi strada tra i camerieri ed i suoi colleghi che correvano rispondendo all’allarme.

Nella confusione, il Nemico si alzò da tavola e si diresse all’uscita più vicina. Come varcò la porta, l’allarme generale fu diramato a tutti i livelli, anche a quello del Trono in cui si trovava. All’Ispettorato Centrale avevano iniziato a prendere le cose sul serio un po’ troppo tardi.

Mentre le sirene in tutti gli Inferi risuonavano a tutto volume, e le guardie – a quel livello, ancora frastornate dall’allarme improvviso – correvano senza meta in attesa di ordini superiori, Iaphet raggiunse l’ufficio. Metà del suo staff già l’attendeva. Allentandosi il nodo della cravatta cerimoniale, ringhiò al loro indirizzo il più significativo dei «Che succede?»

«Eccellenza, tutte le anime sono in movimento»

«Come, tutte? E in che senso, in movimento?»

Il vice, il cui compito era fare da parafulmine per l’ira di Iaphet, si fece avanti con la cartellina sotto il braccio, e cercando di assumere il tono più professionale possibile – mentre, come tutti, non poteva fare a meno di guardare, almeno di sottecchi, i monitori di guardia – rispose

«Probabilmente non tutte, ma la grande maggioranza; almeno, nei settori di nostra competenza. Hanno lasciato o si stanno preparando a lasciare i loro gironi, e si dirigono verso la Città ed il suo porto».

«Fermateli: vi devo dire tutto io?»

«Non è così semplice, Iaphet. Sono centinaia di migliaia, e le sole nostre guardie non sono sufficienti…»

«Solo le nostre guardie, d’accordo. L’Ispettorato Centrale non manda rinforzi? Li avete chiesti?»

«Eccellenza, è suonato l’allarme generale, e non ci sembra di dover dare istruzioni all’Ispettorato…», si intromise uno dei comandanti delle guardie, presente alla riunione.

«Signorina, chiami l’Ispettorato Centrale ed illustri la situazione! Nel frattempo, avete valutato di chiedere rinforzi dai settori vicini?». Era forse un grigio funzionario, ma non avrebbe permesso che le cose gli sfuggissero di mano in questo modo.

«Sì, Eccellenza», rispose nuovamente l’ufficiale. «Anche da loro c’è del movimento di anime non autorizzato, ma sono molte meno e sembra sia più controllabile. Ci hanno promesso rinforzi entro l’ora».

«Già qualcosa. E, entro l’ora, dove saranno le prime delle anime in fuga?»

«Alle porte della Città, si stima».

Tramite l’interfono, la segretaria comunicava «L’Ispettorato Centrale ha messo ai vostri ordini una legione, Eccellenza. Pare abbiano parecchie grane anche loro, per quando li avranno risolti hanno promesso il loro interessamento totale».

Sugli schermi, si stavano accumulando le segnalazioni dei vari settori dell’Inferno. Non c’era un angolo del Reparto Degenza in cui, in maggiore o minor misura, non si verificassero gli stessi eventi. Tra l’altro, non tutti i colleghi di Iaphet avevano avuto la prontezza di spirito di usare le proprie guardie –o meglio, non tutti i loro sottoposti: da questo punto di vista, nemmeno Iaphet aveva fatto molto – e quindi, c’erano anche fughe minime, che avrebbero potuto essere neutralizzate in pochi minuti, in pieno svolgimento. In tutto, l’Ispettorato Centrale garantiva tre legioni, e per il resto era troppo impegnato in Altro per darsi da fare.

Poiché nessuno, a quel livello, sapeva della fuga del Nemico, l’unico a comprendere la serietà dell’impegno dell’Ispettorato era Iaphet. Gli altri maledivano l’inefficienza di quei burocrati privilegiati ed inamovibili.

«Tutte le guardie e la Milizia Infera ai nostri ordini occupino la Città ed impediscano l’ingresso delle anime, ad ogni costo!», tuonò Iaphet ai propri collaboratori, e diede istruzione di diffondere l’ordine agli altri settori: dove, in assenza di ordini superiori, furono ben lieti di obbedire a qualcuno che – vagamente – sapesse da che parte girarsi.

Fu così che tutte le anime che si erano riscosse, non più trattenute, si riversarono verso i livelli superiori dell’Inferno, mentre la milizia e le guardie si affrettavano per precederle, e sbarrare le porte, ed innalzare barricate dove quelle erano crollate o non erano sufficientemente solide.

Barricate che sembravano svolgere il proprio compito. La gran folla di anime si stava infatti radunando fuori dalle mura della Città, che si trovava tra i livelli più bassi dell’Inferno ed il porto. E, nonostante la pressione che esercitavano, non riuscivano a penetrare oltre le porte né a violarne il perimetro.

L’ora era passata. Iaphet, e gli altri sovrintendenti, si erano portati sulla collina che sovrasta la Città, ed osservavano i movimenti delle truppe e delle anime come fossero disposti su una mappa. Le legioni dell’Ispettorato Centrale combattevano molto meglio della guardia del reparto degenza, andava riconosciuto; né le anime, senza una guida, avevano speranze di riuscire a rompere le linee dei difensori. Ormai si era in fase di stallo, o con pazienza o facendo affidamento all’Ispettorato Centrale, quando avesse sistemato l’Altro problema. E l’Ispettorato Centrale si fece vivo, nella persona di un cursore che, a cavallo di una qualche creatura infernale, di quelle appositamente allevate a tale scopo, apparve al limitare della piana ed in poche rapidissime falcate aveva raggiunto, con un plico sigillato, gli alti funzionari raccolti attorno a Iaphet.

«Dall’Ispettorato Centrale», riuscì a dire prima che la sua cavalcatura stramazzasse al suolo, stremata.

I funzionari erano invitati ad allontanarsi dalla Città, visto che il comando delle operazioni era avocato all’Ispettorato stesso. Il rango dei dirigenti non avrebbe potuto competere con quello degli Ispettori, ma il messaggero non lo era. Dunque, ritennero di mancare di obbedirgli: gli ufficiali dell’Ispettorato, scendendo in città al comando delle truppe, d’altra parte non si curavano dell’eventuale pubblico. Pubblico che si riteneva nel proprio pieno diritto ad assistere, essendo quelle anime sotto la propria responsabilità. Iaphet e gli altri osservarono le legioni dell’Ispettorato mettersi agli ordini dei propri comandanti ma, invece di passare all’attacco – cosa che si sarebbero aspettati – le osservò rafforzare le posizioni difensive.

«Ma cosa stanno facendo?», si chiedevano l’un l’altro i sovrintendenti. «In questo modo non torneranno mai ai reparti degenza!» «Chi altri può arrivare, che metà inferno è qui sotto?». «Io mi metto alla testa delle mie guardie, se l’Ispettorato non si muove!», concluse Iaphet, lasciando la collina e scendendo al piano, aprendosi la strada tra le anime e portandosi sugli spalti della città, nel settore che era presidiato dagli uomini al suo comando. L’Ispettorato aveva ordinato loro di ritirarsi, ma Iaphet annullò l’ordine - «Vanno respinte una volta per tutte, o l’Eterno ordine delle cose verrà sovvertito», arringava i suoi uomini prima dell’assalto.

All’orizzonte si era accesa una luce. Una luce chiara e bianca, non le solite torce rosse che rischiaravano senza illuminare, come era norma all’Inferno. Una luce che veniva avanti, ingrandendosi come un sole che sorge dall’alto. Era, ormai, in mezzo alle anime, che la sospingevano e seguivano, contro le mura della città. Dalle retrovie si sentivano gli ordini secchi degli ufficiali della Milizia «Serrate i ranghi!», «In alto gli scudi!». La luce era insopportabile, agli occhi degli abitanti dell’inferno abituati ad un’eternità di buio e delle anime che da secoli risiedevano nelle medesime oscurità. La luce puntava contro il settore delle mura presidiato dagli uomini di Iaphet, il quale si trovò a ripetere gli ordini di tutti gli altri ufficiali «Non fatela passare!»

Ma la luce era troppo forte, e troppo velocemente si scontrò – lei, e le anime al suo seguito – con la fila sottile di lance e scudi. Nel lampo di luce, Iaphet intravide procedere una sagoma, forse la sagoma tanto odiata.

Poi la luce e le anime si abbatterono sulla città, la invasero, passarono come un rombo di tuono sulle milizie, divelsero le porte da poco restaurte, solcarono il lago e si persero nella nebbia. Un terremoto, di nuovo, fece crollare le mura. Fuori, era l'alba.

E tutto tacque. Tacque la pianura svuotata, tacquero le milizie che avevano osservato inermi il passaggio del popolo, tacquero i funzionari sulla collina. Le telescriventi, negli uffici, davano il conto aggiornato delle presenze. Sulla scrivania di Iaphet era arrivato il rapporto del Movimento Anime, che confermava che dal momento della morte del Nemico gli ingressi erano calati del settanta percento rispetto alle previsioni. Taceva anche l’ufficio, dal momento che dal momento della Grande Fuga – come fu chiamata da quel giorno in poi – nessuno ne vide più il proprietario.

Il suo vice, che lo sostituì, dopo qualche settimana provò a cercarne il nome negli archivi. Secretato.

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