lunedì 31 maggio 2010

A disposizione - dal romanzo di Lui


Dopo essere rimasto a lungo in dubbio circa l'opportunità di pubblicare un capitolo che fa tanta (troppa) chiarezza sul contenuto di Lui, mi sono risposto affermativamente. Vedremo.


Non era convinto della politica di Sua Eccellenza il Ministro della Guerra. Non era convinto della politica, per essere più precisi. Se, da una parte, l'arruffapopoli romagnolo gli era sembrato scaltro ed attento, dall'altra i pochi contatti con le squadre che aveva avuto l'avevano confermato nella sua idea che non ci fosse differenza tra quanti aderivano alle organizzazioni eversive o alle cosiddette organizzazioni patriottiche. Questo, nonostante una circolare del ministero della Guerra avesse precluso ai militari le prime (e ci sarebbe mancato altro) ma non le seconde.

Pertanto, assolutamente inutile era l'autorizzazione appena richiesta. Ai Fasci avevano aderito molti militari per ragioni politiche, e quanti ne bastavano per ragioni di...sicurezza. Una sola parola, e non ci sarebbe stata federazione provinciale senza due occhi pronti a telegrafare a Roma.

Percorse le poche centinaia di metri che separavano il ministero dal comando, si presentò dal "suo" generale all'ora della colazione, che venne loro servita direttamente nello studio.

«Vede, signore...i politici hanno deciso di giocare tutte le carte in loro possesso per condurre il fascismo dalla parte dello Stato; d'altra parte, specie nella periferia, è lo Stato che sembra passare dalla parte dei fascisti. Prefetti, sottoprefetti, questori...ufficiali della Guardia Regia decenti ce n'è pochi, e la truppa si sa com'è. Inoltre, al mio ufficio sono stati segnalati alcuni episodi che vedevano coinvolti anche isolati uomini dei Carabinieri. »

Il generale Badoglio aveva abbandonato da poco l'incarico di Capo di Stato Maggiore, e da qualche settimana inanellava una missione all'estero dietro l'altra. I "politici" volevano da tempo riprendere il controllo dell'esercito, ma i primi dei suoi nemici erano i colleghi; ora sedeva insieme a loro nel Consiglio dell'Esercito, sotto il Presidente del Consiglio e l'indiscutibile Diaz.

«Colonnello, mi duole dirlo ma non possiamo aspettarci nulla di diverso, da questa situazione. Non nascondo si tratti di guerra civile. Gli italiani sono già armati gli uni contro gli altri, e le violenze e le uccisioni sono all'ordine del giorno; non ci resta che fare la nostra parte. La parte dello Stato, secondo la volontà di Sua Maestà il Re»

«Lo spazio di manovra che ci è concesso è sempre più ridotto. Come le scrissi ieri da Milano, il governo è disposto a pagare per addomesticare i fascisti»

«È una vergogna, ed i fascisti sono dei criminali. Tra l'altro, raccogliticci ed incapaci. »

«D'altro canto, bisogna riconoscere che l'opinione pubblica solidarizza più facilmente con loro che con i socialisti. Negli ultimi due anni i sovversivi sono stati molto rumorosi. Non è molto chiaro ai cittadini se il loro - relativo - chetarsi sia dovuto a ragioni interne o alla pressione degli avversari. La maggioranza è portata a credere che sia un merito, benché ottenuto con metodi non ortodossi, dei fascisti»

«Lo pensano anche molti nel governo. Giolitti è convinto, al contrario, che sia un declino naturale; e che lo stesso naturale declino investirà anche nazionalisti e camicie nere; e, conseguentemente, non ha intenzione di fare nulla. Ma per fare nulla ci sono i politici, noi dobbiamo fare qualcosa»

«Infatti, signore, infatti. Se posso permettermi di esprimere un'opinione, io mi concentrerei su due faccende: il rapporto che Mussolini ha con gli inglesi - che non è poco - e quello tra Mussolini ed i suoi scherani. C'è parecchia differenza tra lui ed i cosiddetti ras padani o toscani. Se necessario, li metteremo l'uno contro gli altri»

«Sta bene. Tra due giorni parto per la Romania - faccia lei, carta bianca. Come sempre. »

Lui si alzò facendo il saluto, e si congedò dal suo superiore. Due strette rampe di scale dopo si trovava nelle stanze del servizio I, piombato tra capo e collo del maresciallo di piantone, che aspettava il suo comandante per un orario più urbano; dopo l'orario del pranzo, per dire.

Si infilò senza dire una parola nel suo ufficio. Ci rimase per una mezz'ora abbondante, riordinando carte e rovistando tra gli schedari; diede una voce al tenente portadispacci - che era rientrato dal pranzo - e gli consegnò un biglietto in busta chiusa, senza l'indirizzo del destinatario. Quello intuì ed uscì da una porta sul retro, senza farsi vedere.

Nel frattempo, Lui cercava di ridare una parvenza di ordine ai documenti che aveva rovesciato sulla scrivania; alcuni venivano riposti nuovamente in schedari e - i più importanti - in cassaforte. Altri, e non erano pochi, infilati con cura in un paio di grosse valigie di cuoio.

Verso le sedici il tenente rientrò recando seco una busta sigillata. All'interno non c'era che un biglietto scritto a macchina, con un geroglifico di firma; fortunatamente, il mittente era inequivocabile, dato lo stemma impresso sul sigillo. Dopo averlo letto e fatto sparire nel fuoco, Lui chiuse con cura le due valigie, ormai colme di incartamenti. Poi si affacciò all'uscio dell'ufficio, ed ordinò al maresciallo di chiamare l'altro colonnello.

Il colonnello Garruccio non si fece attendere, ed arrivò in pochi minuti paonazzo in volto e costretto nella divisa che stentava a rendere più marziale la sua pinguedine. Anche se di fronte ad un suo pari grado, non si sedette e rimase in piedi davanti alla scrivania di Lui.

«Sono oltre tre anni che con molta abilità impersona il ruolo di comandante del servizio I, colonnello; da quando il generale Badoglio ritenne non fosse sicuro che, date le attività di cui ci occupiamo, fossero noti volto e nome del vero responsabile. Allora si era in guerra, e la sicurezza era rivolta soprattutto nei confronti dei nostri nemici esterni; anche ora siamo in guerra, ma il nostro nemico è più furbo, non sempre indossa una divisa e -sempre- non ha quartiere. »

«Sì, signore» Nonostante il grado e l'età, Garruccio sapeva benissimo chi comandava, in quell'ufficio «Ciò nonostante credo che abbiamo avuto discreti successi, specie nella rete di informatori all'estero»

«E la rete di informatori all'estero sarà tutto - o quasi - quello che lascerò al mio successore»

«Lei è trasferito, Signore? », domandò a Lui, più sorpreso che allarmato

«Più che trasferito, direi 'scorporato', colonnello. Ora il servizio I è cosa sua, ma si occuperà solo di spionaggio e controspionaggio militari, rivolgendosi ai nostri competitori stranieri. Non si occuperà più di faccende interne. Immagino che lei capisca»

Il colonnello Garruccio non aveva mai realisticamente pensato di poter subentrare a Lui quale capo del servizio; negli ultimi anni, oltre a firmare i rapporti che venivano indirizzati al comando supremo, al governo ed al parlamento aveva seguito solo una sezione del servizio, quella relativa agli attaché militari all'estero, che facevano convergere su Roma, per suo tramite, le informazioni che ottenevano. Delle operazioni cosiddette interne, non aveva ritenuto di voler sapere nulla - anche per sua sicurezza, come gli aveva ripetuto Badoglio quando, riorganizzando lo Stato Maggiore nel mezzo della guerra, aveva scomposto e ricombinato gli uffici per le informazioni militari. Quello appena prospettatogli era un decisivo avanzamento di carriera. E, ad ogni modo, avrebbe comunque dovuto obbedir tacendo.

«A disposizione, Signore»

Lui lo fece sedere, e si mise con pazienza ed ordine ad illustrargli gli aspetti del servizio che doveva conoscere, gli schedari a cui avrebbe avuto accesso, i canali informativi che avrebbe avuto a disposizione

«Inoltre, è inteso che se rivolgessi una richiesta al suo ufficio, ci si aspetta che mi mettiate a disposizione uomini e mezzi»

Fino a quel momento, Lui aveva evitato di accennare a quale sarebbe stato il prossimo incarico. E, dal tono con cui gli aveva parlato, non intendeva farlo.

«È il momento di scambiarci ufficialmente le consegne. Arrivederci» Così dicendo, lasciò un mazzo di chiavi ed un quaderno-cifrario sul tavolo, sollevò - non senza fatica - le due valigie e si dileguò per la scala che dava direttamente sul cortile interno, dove attendeva parcheggiata un'automobile coi vetri affumicati.

Si era fatto pomeriggio inoltrato, e Lui era atteso per l'appuntamento più importante della giornata.

Si diresse, lasciandosi alle spalle il traffico di carretti e carrozze della Roma serale, a nord della città, dove imponenti parchi ed una riserva di caccia appartenuta ad un nobile pontificio separavano Roma dal suburbio.

Entrò nel parco della villa da un ingresso di servizio, evitando i controlli dei carabinieri; si diresse a velocità ridotta fino ad un'ala non illuminata, dove fu fatto entrare da un servitore. Fu lasciato ad attendere in un salotto, con le pesanti tende completamente tirate, in modo che nessuno da fuori potesse vederne le luci accese.

Lui rivolgeva lo sguardo al portone a due ante, appesantito di stucchi dorati, quando sentì alle proprie spalle aprirsi un passaggio nascosto nella decorazione. Preceduto da due addetti della Casa Militare, il padrone di casa si presentò in divisa da Generale d'Esercito; Lui se ne sorprese, pensando che - almeno a casa - vestisse in borghese. Il primo degli ufficiali presenti, a mo' di scusa, ricordò a Lui che il padrone di casa era atteso ad una cena della Marina, e che non poteva trattenersi troppo.

Uno sguardo tagliente del padrone di casa, dal basso all'alto, fece capire ai due assistenti che sarebbe stato opportuno si ritirassero.

Quando furono soli, Lui - ancora rigido dal momento in cui il suo ospite si era mostrato - tirò un respiro.

«Maestà»

«Riposo»

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giovedì 27 maggio 2010

Confessioni di una mente pericolosa

a tutti i "signor Franco" del mondo

Mettiamo che siamo nel 1970.
Mettiamo che un gruppo di militari, ex repubblichini, industriali di destra stia preparando un golpe.
Mettiamo che a capo di tutti c'è Junio Valerio Borghese.
Mettiamo che, per gestire il cambio di regime in Sicilia, qualcuno pensi di cercare l'appoggio di Cosa Nostra.
Mettiamo che, per vari motivi, tra qui quello - umanitarissimo - di far scarcerare un paio di parenti, don Tano Badalamenti sia pronto a convincere l'intera Cupola Mafiosa a sostenere il colpo di stato.
Mettiamo che i corleonesi non sono tanto dell'idea.
Mettiamo che i corleonesi, tramite Salvo Lima e Ciancimino, hanno agganci molto rilevanti a Roma
Mettiamo che questi agganci arrivino direttamente al Ministero dell'Interno

Mettiamo che sia inviato a Palermo un funzionario del SID per sostenere, all'interno della mafia, le ragioni dei contrari alla collaborazione con i congiurati ed al colpo di stato.
Mettiamo che si faccia chiamare Franco
Mettiamo che sia io

Che noi sapessimo del tentativo di Borghese non c'è nemmeno bisogno di dirlo, figurarsi che stavamo occupando Sesto e se n'è accorto pure lui, annullando tutto. Un po' meno ovvio, certo, sarebbe raccontare come ne eravamo venuti a conoscenza, ma mettiamo, appunto, che qualche fascista abbia fatto male i propri conti tra anticomunismo politico ed avversione 'storica' per il fascismo della mafia siciliana. Insomma, a metà 1970 sapevamo del piano. In generale, certo. Comunque questi corleonesi ci avevano visto giusto, adesso uno potrebbe tirare in ballo Stati Uniti o quello che vuole, ma i fatti furono che contraemmo un debito mica male nei riguardi di un certo numero di personaggi di spicco. E, si sa, non è che fossero anni tranquilli; un gruppo di collaboratori senza scrupoli, per il bene dello Stato e della Repubblica, era manna dal cielo. Insomma, non era nemmeno la prima volta che imbarcavamo persone dal curriculum imbarazzante, questi erano solo più in vista di altri. Contraemmo un debito, ed un debito va onorato. Ma, anche senza giustificazioni, che non vi devo dare: il mio incarico era, è stato per molti anni, è stato finché il sistema ha retto, controllare, indirizzare e prestare attenzione ai cari Ciancimino, Riina e compari. Anche quando un magistrato particolarmente efficiente (e ce n'è pochi, in questa nostra Italia) riusciva ad acciuffarli, dovevo farmi in quattro per impedire che qualcuno si lasciasse convincere a parlare di questo nostro delicatissimo accordo. La cosa è durata parecchio. Almeno finché non abbiamo avuto più bisogno della mafia. Il problema è che la mafia sapeva troppe cose. Il problema è che non è che potessimo sterminare tutti i capimafia di Sicilia dall'oggi al domani (e, mi capite, non certo per impossibilità pratica). Insomma, siamo rimasti un po' sul filo del rasoio. Anche perché questi mafiosi avevano alzato un po' troppo il tiro, con quella mania delle bombe. E uccidendo Lima, certo. E, dove non si mettevano i mafiosi, c'erano i cavalieri senza macchia e senza paura della magistratura, che tanto andavano di moda. Insomma. A stare nel fango ci si sporca, anche se lo stai spalando via. È insopportabile la parte di chi fa il puro. Che due o tre scribacchini abbiano pensato di diventare famosi seminando zizzania, che se fosse stato per quelli della loro risma finivamo come un Cile o una Grecia, salvo poi fare gli scandalizzati dalle colonne di Paese Sera...

Mettiamo che adesso io me ne torno all'Afghanistan, che son problemi più seri.
Mettiamo che non mi chiamo né Franco né (ma da dove l'avete tirato fuori, poi..?) Carlo.
Mettiamo che mi sono inventato tutto.

ispirato da Repubblica di oggi

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mercoledì 26 maggio 2010

De libero arbitrio

Scena: attorno ad un tavolo, oratorio. Sera.

Educatore adolescente: E comunque io penso che sia giusto, almeno una sera, lasciare i ragazzi liberi di fare quello che vogliono
Don:Avresti ragione, la libertà è un valore importante, e costruisce responsabilità. Ma non dimentichiamoci che la libertà è un rischio, un rischio che non possiamo permetterci di correre: solo Dio lo corre, dato che ci ha voluto liberi...
Cassa:...e non è stata la migliore delle sue pensate.

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lunedì 24 maggio 2010

Di mafia e Sicilia

Quando uccisero Falcone avevo sei anni. Non ricordo praticamente nulla della strage, ma ricordo bene che elessero Scalfaro Presidente della Repubblica. Ascoltavamo la seduta delle camere riunite al giornale radio. In casa fummo contenti dell'elezione, questioni di corrente facevano sì che mio padre non amasse Andreotti. Meglio di Forlani, comunque.

Poche settimane fa era l'anniversario dell'assassinio di Peppino Impastato. E contemporaneamente di quello di Aldo Moro. Tra l'altro, l'anno era lo stesso, il 1978. So che è estremamente sgradevole classificare i morti, figuriamoci le vittime. Ma qualcuno dovrà rendere conto del fatto che ormai non si parla (almeno dalle mie parti politiche, ma altrove non se ne parla e basta) che del primo, e si dimentica il secondo. Il primo era un discretamente oscuro candidato consigliere comunale di Democrazia Proletaria (vi scuso se non ne avete mai sentito parlare), il secondo il Presidente della Democrazia Cristiana. Il primo ebbe il coraggio di denunciare mafia e mafiosi, avendone in famiglia; il secondo è di fatto il padre ideale di quello che oggi è il Partito Democratico, e comunque dell'assunzione di responsabilità politica dei comunisti. E fu ucciso (fino a prova contraria, a me piace parecchio anche la dietrologia) perché c'erano comunisti che questa responsabilità non volevano assumersela. Poi ditemi voi.

PS: il 9 maggio sarebbe anche la Festa dell'Europa, ma dai tempi della Margherita nessuno ne parla più. Già, belle cose.

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